Foto di Tito José Muñoz
Donata si era appena laureata in Lettere Moderne, quando parte come volontaria per sei mesi in Cile con la Comunità Papa Giovanni XXIII. Accolta in una casa famiglia a Valdivia, vive la quotidianità anche in due progetti per ragazzi disabili e migranti vulnerabili. Scopre il valore unico di ogni persona e la gioia del donare se stessi, tornando con il cuore colmo di storie e legami indelebili.
Per 6 mesi, nel periodo tra aprile e ottobre di quest’anno (avevo appena concluso la laurea triennale in Lettere Moderne), sono partita come volontaria della Comunità Papa Giovanni XXIII per un’esperienza in Cile. All’inizio non avevo motivazioni chiare o un progetto definito: sentivo soltanto il grande desiderio di mettermi a disposizione delle altre persone, soprattutto quelle che vivono situazioni di difficoltà e fragilità. Forse l’origine di questo desiderio la posso ricondurre a quando, anni fa, facevo l'educatrice nel gruppo Scout del mio paese. Questa volta, però, era diverso: si trattava di lasciare tutto e partire.
Il coraggio del "sì" e l'arrivo a Valdivia
Durante la formazione pre-partenza mi sono affidata completamente ai responsabili dei volontari e delle volontarie, senza preferenze personali sulla destinazione. Quando mi hanno annunciato che sarei volata dall’altra parte del mondo, l’emozione si è mescolata allo spaesamento e inevitabilmente sono arrivate le domande: «E adesso come lo spiego ai miei genitori? Chi glielo dice al mio ragazzo? Sarò davvero pronta per questo?». Solo più tardi ho capito che non ci sentiremo quasi mai all’altezza di affrontare quello che ci succede. Ciò che possiamo fare è trovare il coraggio di dire di sì, di lasciarci trasportare e, quando serve, di fare un salto nel vuoto.
Sono stata accolta a Valdivia, nel Sud del Cile, nella regione de Los Ríos, da una delle due case-famiglia della comunità. Tito e Jaqueline, che oggi chiamo affettuosamente i miei “genitori cileni”, vivono attualmente con 13 figli, alcuni nati da loro, altri sono accolti. La casa era sempre piena di movimento e trambusto, e avere a che fare così direttamente con persone appartenenti a una cultura diversa dalla mia, mi ha permesso di inserirmi subito nelle dinamiche del luogo e di conoscere attraverso testimonianze dirette le tradizioni e le abitudini, con curiosità e rispetto. Inoltre, non avevo mai studiato lo spagnolo in passato e la convivenza è diventata un vero e proprio corso avanzato di lingua!
Prima della partenza mi avevano già raccontato teoricamente le realtà con cui avrei lavorato, ma incontrare e conoscere queste persone fa davvero la differenza. Ho condiviso con loro sia momenti di semplicità quotidiana, come andare a passeggiare, consigliarsi nuove canzoni, comprare alla “feria”, cioè il mercato locale; sia più profondi, come le chiacchierate con Jade, la mia compagna di stanza, prima di andare a dormire, assistere a paesaggi mozzafiato, come il tramonto a Playa Curiñanco, ma anche esserci nei momenti difficili, come attacchi di rabbia o crisi dovute a fragilità psichiatriche. Ognuno di loro ha un nome, una storia, una voce, che ora porto con me. Ancora oggi il legame che si è costruito tra di noi permane e ci capita spesso di fare lunghe telefonate di aggiornamenti sulle nostre vite.
Progetti di accoglienza: disabili e migranti vulnerabili
I progetti a cui ho partecipato al di là della casa-famiglia sono due. Il primo è “Mano bajo la lluvia”, un centro per ragazzi e ragazze con disabilità, fisiche o mentali. Qui la settimana è scandita da laboratori di arte, ginnastica, cucina e gite fuori porta. Ciò che ho imparato dai momenti condivisi con loro è l’importanza di riconoscere il valore unico di ogni persona. In particolare, porto nel cuore il ricordo di quando J., un ragazzo con importanti difficoltà di mobilità, aveva paura di superare un corso d’acqua sulla spiaggia: con un piccolo aiuto e molti incoraggiamenti, non solo è riuscito a sorpassarlo, ma si è anche reso conto – e io insieme a lui – che spesso ci poniamo dei limiti solo per paura o insicurezza, mentre avremmo tutte le qualità necessarie per affrontare le sfide che incontriamo.
Il secondo progetto in cui ero inserita era una Casa di Accoglienza per persone migranti in condizioni di alta vulnerabilità sociale, che necessitavano di uno spazio protetto in cui vivere. Noi volontari e i responsabili ci impegnavamo a garantire i bisogni primari e intervenire affinché le persone accolte potessero accedere a servizi sanitari, educativi, lavorativi e giungere alla regolarizzazione del proprio status migratorio. Qui ho conosciuto persone boliviane, colombiane, haitiane e perfino un ragazzo russo. Con loro ho condiviso piccole routine quotidiane: cucinare le “arepas” colombiane, imparare lo spagnolo insieme, giocare con i bambini, camminare tra i mercatini locali, ascoltare le storie del loro passato. Grazie a questa esperienza ho avuto la possibilità di mettermi totalmente a servizio dell’altro e respirare la pienezza della condivisione vera, vissuta nella concretezza della quotidianità attraverso piccole azioni e gesti continui nel corso delle giornate.
Sono grata di aver avuto l’opportunità di vivere questa esperienza, di aver scelto di mettermi al servizio in libertà, per essere uno strumento di un progetto molto più grande: usare le mie mani a favore dell’altro, riempirmi gli occhi di tutte le meraviglie che ho visto, usare la mia voce per offrire parole di gentilezza e conforto, lasciarmi riempire il cuore di amore.
Quello che mi porto a casa non è concreto o visibile, ma è la voglia di non restare indifferente, di condividere la gioia del donare la propria vita agli altri, di essere quella goccia nel mare.