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30 Gennaio 2021

Il convento che dà rifugio ai profughi

Ad Alsike, in Svezia, syster Karin offre una casa e un riparo a chi non ne ha.
Il convento che dà rifugio ai profughi
Una suora coraggiosa mette l'accoglienza al primo posto, perché le persone in stato di bisogno sono più importanti delle regole imposte dalle autorità locali: «Ogni vita è preziosa e dobbiamo contarle una per una».
A sentirla parlare, syster Karin Johansson sembra aver girato il mondo: è in grado di raccontarti che paradiso era il Libano prima della guerra, la ferocia della violenza che ha segnato i Balcani, lo stupore attonito, identico in tutte le parti del mondo, della gente che inaspettatamente si ritrova in casa una guerra non voluta. Nonché quei rari episodi di umanità che accadono persino in una guerra, quando due sguardi si incontrano e si riconoscono, e allora anche chi indossa la divisa dell’altro colore abbassa la testa e decide che almeno quella casa, quella vita, va risparmiata.
Syster Karin in Svezia
Syster Karin è la responsabile del convento che accoglie i profughi a Alsike, Svezia
 
«Ogni vita è preziosa e dobbiamo contarle una per una», dice syster Karin, che non è un’inviata speciale delle Nazioni Unite, ma una suora che vive ad Alsike, 60 km a nord di Stoccolma, nella regione dello Småland, quella piena di foreste e di laghi incantati, teatro delle saghe di elfi e troll, e delle avventure di Pippi Calzelunghe. E come Pippi, questa suora infaticabile non accetta facilmente limitazioni e divieti, anche se ha recentemente dovuto arrendersi agli orari di riposo imposti dai medici dopo l’ennesima crisi di salute. Non ha accolto invece le prescrizioni della polizia che più di una volta ha fatto irruzione nel piccolo convento e ha portato via profughi, richiedenti asilo, e migranti ospitati, spesso senza documenti.

Syster Karin e Rose
Syster Karin con la novizia syster Rose
Gruppo suore in Svezia
Syster Karin insieme a syster Ella e a syster Marianne qualche anno fa
Convento di Alsike


Quando abbiamo visitato Alsike, prima delle restrizioni per l'epidemia di coronavirus, c'erano 24 persone che vivevano nella vecchia casa centrale e nelle piccole rimesse e capanni solitamente destinati agli attrezzi, presenti nel giardino. La casa, che nel ʼ55 da scuola della vicina chiesa è diventata un convento, è stata sottoposta a forti pressioni nei 40 anni di accoglienza. «Due anni fa c’erano 65 persone qui. Avevamo materassi ovunque, in cucina, nella cappellina, e nelle casette per gli attrezzi. Nel salotto dormivano 3 famiglie. Una volta l’acqua della cisterna è finita, un’altra volta abbiamo avuto un’invasione di pulci e una di ratti. Io mi sono ammalata ripetutamente di polmonite. Il medico mi ha ordinato di allontanarmi. Sono stata allora 5 mesi in Belgio, presso un monastero benedettino dove da giovane avevo svolto la mia formazione». Non c’erano infatti case di formazione per suore qui in Svezia, dove dopo l’adesione alla riforma luterana nel 1526 tutti i conventi e i monasteri erano stati chiusi. Nel 1951 però il divieto di aprire monasteri venne abolito e 3 anni dopo emise i voti religiosi syster Marianne, la prima suora all’interno della Chiesa Luterana di Svezia.

Un convento dove i profughi trovano rifugio

Le tele, i colori e i pennelli riempiono l’atelier, le scale, e vari angoli del salotto.
H.C., originaria del Kossovo, ha scoperto qui la pittura, prima non aveva mai preso un pennello in mano. Affetta da una malattia progressiva, passa tutte le sue giornate nel convento, senza possibilità di uscire perché non ha documenti e non vuole rischiare di essere rimandata in patria. «Quando dipingo sperimento ore serene, in cui riesco a non pensare agli abusi subiti». I suoi quadri raccontano la natura meravigliosa che circonda il convento, i boschi di betulle immersi nella neve, la pace del vicino lago, ma anche frammenti di guerra, delle tante guerre di cui sente parlare qui ad Alsike, così simili alla “sua”.
Raccontando ancora dei difficili rapporti con le autorità, Karin spiega: «Non siamo e non vogliamo essere un campo profughi. Non abbiamo mai imbastito una collaborazione formale con i servizi sociali perché ci avrebbero imposto regole a cui non potevamo attenerci: una determinata metratura per ogni persona accolta, un adeguamento dei servizi igienici, e questo avrebbe reso l’accoglienza per noi impossibile. Le persone sono sempre arrivate semplicemente per loro conto, bussando alla porta, e raramente abbiamo detto di no. Il momento più terribile è stato il raid del ’93: hanno portato via tutti tranne due famiglie, e molti sono rimasti traumatizzati. Certo, avevano vissuto situazioni peggiori in precedenza, ma qui si sentivano al sicuro e si sono ritrovati improvvisamente ancora una volta senza alcuna certezza. Come abbiamo fatto ad andare avanti dopo quell’episodio? Con l’azione, abbiamo continuato ad accogliere. Certo, abbiamo anche tentato il dialogo, non abbiamo paura di dialogare con nessuno perché non abbiamo nulla da perdere, ma ciò che ha contato è stato agire».
Da questo punto di vista adesso syster Karin e Rose, novizia, sono più tranquille perché hanno acquistato una certa notorietà in Svezia, giornali e televisione si sono interessati a loro, nel 2014 hanno ricevuto un premio da parte del quotidiano nazionale Aftonbladet, e la loro attività prosegue, come testimonia senza equivoci il cartello che da anni accoglie i visitatori di Alsike: «Convento di Alsike, rifugio per profughi in stato di necessità (Mt 25,35)»
Cartello al convento di Alsike
Il cartello che si trova all'ingresso del convento: «Il convento di Alsike è rifugio per profughi in situazione di emergenza»

Storie di pace, storie di riscatto

Nei racconti di syster Karin non c’è alcuna ombra, alcun rimpianto o fatica. A domanda, ammette che ci sono state delle difficoltà, ma la bellezza è stata sempre più grande: «durante la guerra in Libano ospitavamo contemporaneamente rappresentanti di tutte le parti in conflitto, e qui vivevano in pace».
La pace che si respira qui non è la pace silenziosa e ordinata dei conventi a cui siamo abituati, ma la pace possibile tra popoli diversi che dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Europa mettono insieme il loro desiderio di vita, di una vita dignitosa e sicura, libera da paure.
Tanti i bambini e le bambine ospitati negli anni: alcuni sono ormai adulti, e studiano ad Uppsala per diventare medici o avvocati.
Prima della nostra partenza, syster Karin ci mostra un plastico: è il villaggio che sorgerà intorno al convento, piccole case per famiglie e per studenti «che possano vivere qui, condividere con noi, prendersi cura dell’orto e degli animali, e garantire che l’accoglienza continui. I fondi per fare tutto questo non ci sono ancora, ma ho fiducia che arriveranno!»

Suore, sorelle di tutti

Syster Karin spiega come è nato l’ordine delle Sorelle dello Spirito Santo, di cui fa parte: «Possono esserci riforme e separazioni, a volte per motivi religiosi, a volte per motivi politici, ma la fede della gente non cambia, e syster Marianne aveva chiaro che era fatta per una vita di preghiera. E aveva chiaro anche che, essendo nata in Svezia e cresciuta all’interno della Chiesa Svedese, non voleva abbandonare la propria tradizione di fede, ma vivere la vocazione al suo interno. Ci sentiamo forse più vicine alla Chiesa Cattolica Romana o a quella Anglicana che alla Chiesa Luterana tedesca – continua syster Karin – e comunque essere suora mi sembra molto ecumenico: vuol dire essere sorella di tutti e di tutte».
Dalla fondazione dell’ordine i numeri delle suore sono sempre stati contenuti: le 3 suore che per oltre 40 anni hanno praticato la loro vita di preghiera e di accoglienza sono Marianne, Ella e Karin. Ella è morta nel 2016, Marianne oggi ha 94 anni e ha spesso bisogno di lunghi ricoveri, rimane quindi Karin che da 3 anni vive con Rose, novizia, arrivata qui dal Kenya dove ha conosciuto i missionari della Chiesa Svedese. «Siamo state molto unite: quello che ci ha tenute insieme nella nostra sororità è stata la preghiera, ma anche la passione per l’arte, la musica e la letteratura, che abbiamo trasmesso ai nostri ospiti».