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4 Giugno 2022
Ultima modifica: 4 Giugno 2022 ore 09:43

In un leak le foto dei campi di concentramento cinesi

Centinaia di migliaia di detenuti segregati: migliaia di immagini e documenti pubblicati
In un leak le foto dei campi di concentramento cinesi
Foto di Xinjang police files
Già le prime inchieste sui campi di rieducazione cinesi avevano portato al blocco in Cina delle trasmissioni della BBC. Poi in un libro la denuncia di Gulbahar Haitiwaji: «Ecco come hanno rapito mia madre». Ora l'attacco hacker ha portato i dossier più segreti sullo Xinjiang nelle mani di un professore tedesco.
I moderni campi di concentramento cinesi esistono e la vita al loro interno è disumana. Lo certifica l'inchiesta “Xinjiang Police Files” condotta da 14 testate giornalistiche internazionali indipendenti, che hanno verificato le informazioni sottratte a due prefetture della regione cinese dello Xinjiang.

Il leak del 24 maggio parla di decina di migliaia di persone rinchiuse, tutte appartenenti alla minoranza uiguro-musulmana. Le immagini diffuse dai media di tutto il mondo (in Italia da L'Espresso) mostrano persone ammanettate e picchiate; nei documenti ufficiali si legge: «Sparare a vista su chi tenta di fuggire».

Gli Xinjiang Police Files sono stati ottenuti da un professore tedesco-americano, Adrian Zenz che scrive di aver ricevuto i dati informatici da una terza persona.


Eppure parlarne ed approfondire resta difficile, se non impossibile. Il 30 maggio l'Unione Euopea ha affidato il suo messaggio di disappunto alla portavoce del servizio affari esteri dell’Ue, Nabila Massrali.

«Ci dispiace che l’alta commissaria Onu per i diritti umani Michelle Bachelet abbia avuto accesso limitato a organizzazioni della società civile indipendente, difensori dei diritti umani e centri di detenzioni e che questo non le abbia consentito di valutare la reale dimensione dei campi di rieducazione politica in Xinjiang», ha detto.

Mia mamma è sparita: la storia di Gulbahar Haitiwaji diventa un libro

Sono quasi 3.000 le fototessere di detenuti rubate dagli hacker. Già un libro, pubblicato nel 2020, aveva raccontato la vicenda di una madre sparita e poi liberata grazie all'attivismo della figlia.

Haitiwaji Gulbahar sorridente con il marito Kerim
Haitiwaji Gulbahar con il marito Kerim a Parigi poco prima della partenza per lo Xinjiang nel 2016.
Foto di Gulhumar Haitiwaji


Questa foto è l'ultimo ricordo che Gulbahar Haitiwaji, donna cinese emigrata in Francia nel 2006, ha della sua vita precedente. Scattata poco prima di ritornare in Cina per delle formalità burocratiche, era stata diffusa da una delle sue due figlie, Haitiwaji, alla disperata ricerca di notizie sulla madre. Si vede un tranquillo momento al ristorante, con il marito.

Appena Gulbahar nel 2016 rimise piedi nello Xinjiang, la regione cinese in cui era nata, si aprirono per lei le porte dell'inferno.
Le venne detto che sua figlia era stata riconosciuta ad una manifestazione indetta per protestare contro l'internamento forzato di almeno un milione di Iuguri, cinesi di religione islamica, nei campi di rieducazione.

Il dato è stato smentito dal Governo cinese, ma è stato confermato negli anni scorsi a più riprese da innumerevoli inchieste giornalistiche, tra le altre, della BBC. Per tutta risposta il Partito, l'11 febbraio 2021, aveva sospeso le trasmissioni (Rainews) della TV britannica sul territorio cinese.

La donna fu arrestata e rinchiusa in un campo di concentramento, dove è rimasta fino al 2019: il 2 agosto, pochi mesi dopo il lancio di una campagna internazionale che ne chiedeva la liberazione (è difficile capire se vi sia un nesso diretto), un giudice l'ha finalmente dichiarata innocente e l'ha fatta uscire.





Ma Gulbahar Haitiwaji, ritornata in Francia, a differenza di molti concittadini, ha trovato il coraggio di raccontare: il libro Rescapée du goulag chinois: Premier témoignage d’une survivante ouïghoure, che racconta gli abusi cui per due anni è stata costretta nei campi di detenzione, è stato pubblicato nel 2020; la pubblicazione di alcuni stralci del libro sul britannico Guardian ha portato la vicenda all'attenzione del pubblico internazionale.

E proprio nei mesi successivi qualcosa nel mondo ha iniziato a muoversi: alcuni grandi brand dell'abbigliamento hanno deciso di rinunciare al cotone prodotto nello Xinjiang, in gran parte lavorato dai prigionieri dei campi di rieducazione.

A fine marzo 2021 Huawei ha sospeso le app di Nike e Adidas sui suoi telefonini (Askanews); in tutta la Cina oltre 400 negozi di H&M sono stati chiusi (Il Sole 24 ore) e rimossi dalle mappe online (Wired).

Per tutta risposta infatti la Cina ha lanciato, attraverso la TV di Stato, un boicottaggio sul suo territorio dei grandi marchi dell'abbigliamento occidentale, e i cittadini cinesi vi  hanno aderito in massa. Sono finite sotto accusa le aziende aderenti alla campagna per il consumo etico Better Cotton Initiative, che chiede di escludere dal mercato il cotone prodotto nel mancato rispetto dei diritti umani.

In Italia la catena Ovs ha denunciato pubblicamente le detenzioni arbitrarie e ha aderito alla campagna rinunciando al cotone prodotto nello Xinjiang.