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30 Dicembre 2021

La battaglia di Fatma

Lascia Casablanca per seguire in Italia il marito, che però si rivela uno stalker.
La battaglia di Fatma
Foto di ©motortion - stock.adobe.com
Fatma ha trovato qualcuno, come la Comunità Papa Giovanni XXIII, ad aiutarla nei momenti più duri. Ora che è libera aiuta altre donne vittime di violenza fermando chi si sente padrone della loro vita.
Un messaggio di troppo su whatsapp, un rumore vicino alla porta di casa, passi affrettati dietro di sé mentre si cammina, una lettera nella cassetta della posta. Ci sono semplici avvenimenti quotidiani che per alcune persone diventano invece un’occasione per riattivare un incubo e riaccendere l’angoscia che si credeva superata.

Fatma schiava del marito

Ne sa qualcosa Fatma che dopo 10 anni vissuti sottomessa al marito e limitata nella sua libertà, oggi, che quel periodo nero è finito da tempo, riesce a descrivere i fantasmi della mente come fossero ancora vicini. «Non avrei mai immaginato che mio marito, l’uomo di cui mi sono fidata, l’uomo per cui ho lasciato persino Casablanca la mia città, dove ero cresciuta e avevo studiato per venire con lui in Italia, si sarebbe trasformato al 100% dopo il matrimonio». Lui lavora in fabbrica e lei è quasi sempre in casa in un paese di provincia del nord Italia. Man mano che il figlio - l’unico avuto dal matrimonio - cresce, il rapporto si inizia ad incrinare sempre più.
 «Ogni anno di più limitava la mia libertà: era mio marito che seguiva gli affari di famiglia, era lui che mi portava alle visite mediche, era lui che decideva cosa comprare da mangiare. E quando ho iniziato sempre di più ad occuparmi di nostro figlio, a confrontarmi con altre mamme, a seguire la scuola, è cambiato in modo incredibile. Allora non ho più sopportato di essere come una schiava. La mia vita era una continua violenza sia psicologica che fisica. Spesso mi picchiava perché credeva che io facessi entrare in casa altri uomini quando lui non c’era. Mi controllava pure nelle parti intime rimproverandomi anche se ero innocente».
Dalla violenza fisica, psicologica ed economica, le cose peggiorano quando Fatma si trova di fronte ad un vero e proprio persecutore. «Quando mio figlio ha compiuto 7 anni ha iniziato a controllarmi il telefono, mi seguiva per vedere se lo accompagnavo davvero a scuola, mi telefonava a sorpresa quando era al lavoro dicendomi di accendere la TV sui canali arabi perché così era sicuro che io fossi in casa».
Fatma non riesce a farsi delle amiche durature perché deve stare in casa e nemmeno può andare a lavorare come desidera. Di giorno in giorno l’uomo che lei aveva seguito per amore diventa sempre più pressante anche in casa. Al suo rientro alla sera controlla pure i soprammobili per accertarsi che ogni cosa sia al suo posto, verifica gli odori nelle stanze, i messaggi e le telefonate della moglie, accecato da una gelosia senza limiti e incurante del piccolo che assiste ai continui litigi.

Si può dialogare con chi maltratta la propria moglie?

È proprio per lui, il figlio che ormai intuisce sempre di più che la sua casa non è sicura, che Fatma decide di chiedere aiuto all’assistente sociale. «Non volevo che crescesse vedendo che il papà mi sgridava sempre e mi picchiava. Avevo il terrore che da grande avrebbe fatto lo stesso – mi spiega. Fatma è decisa e piena di grinta ma non intende scappare: vuole cercare un modo per risolvere il problema e proteggere suo figlio dal clima ostile intorno a lui. Non vuole costringerlo a cambiare scuola, amici e nemmeno lei vuole cambiare paese ora che ha appena iniziato ad ambientarsi. L’assistente sociale dapprima cerca di parlare col marito e convincerlo a cambiare comportamento dicendogli che altrimenti rischierebbe che gli venga impedito di vedere suo figlio. Una mediazione che nei casi di violenza domestica è in realtà spesso deleteria.
Chi è maltrattante – ribadisce oggi il nuovo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne - va prima di tutto fermato per impedire che la spirale della violenza aumenti mentre la vittima necessita di immediata protezione.
Dal racconto di Fatma si coglie che lei già aveva intuito che l’unica sua salvezza era allontanarlo: «Io dicevo all’assistente sociale che era inutile parlargli e che i carabinieri dovevano portarlo via da casa nostra. Non c’era altro modo che stare lontani: lui non era più lucido». Fatma viene indirizzata ad un centro antiviolenza che le propone di collocare lei e suo figlio in una casa rifugio lontano da lui, al sicuro. Fatma però non demorde e, pur sapendo di rischiare molto, decide di andare dai carabinieri da sola. All’inizio verbalizzano la denuncia e chiamano il marito per ammonirlo. Lui in casa lascia più tranquilla sua moglie e suo figlio, va a dormire sul divano. Ma poi fuori casa, continua ancora di più a perseguitare la moglie con chiamate, messaggi sul cellulare e nella buca delle lettere.
 

Fatma e gli effetti dello stalking

Fatma inizia a chiedere aiuto a tutti, ad una vicina, ad alcune mamme, alle insegnanti, addirittura al parroco finché viene a conoscenza di una casa famiglia della Comunità di don Benzi nel paese vicino. E in particolare della figura materna della casa, un’educatrice che dopo averla ascoltata ed essersi confrontata con l’assistente sociale, decide di accompagnare passo passo questa donna vittima di violenza domestica e stalking in ogni tappa del suo calvario. La fiducia verso gli altri si riattiva in lei e, nonostante la sua autostima sia stata schiacciata per anni, si lascia affiancare da questa donna più giovane con cui instaura di giorno in giorno una relazione autentica di aiuto capendo che la cosa più importante è uscire dall’isolamento.
«Avevo tanta ansia, non riuscivo a dormire. Mi avevano suggerito un percorso psicologico e l’ho pure iniziato ma sapevo che avrei dovuto trovare il modo di allontanare mio marito per sempre dalla nostra casa, dal nostro paese, dalla nostra vita - racconta -. Non dovevo più tacere! E avevo proprio bisogno di una persona che stesse sempre con me perché ero sempre stata in casa e non sapevo dove andare, non sapevo con chi parlare, cosa dovevo fare. Avevo anche l’impressione ogni volta che andavo dai carabinieri che pensassero che ero io ad essere esagerata…
La Comunità Papa Giovanni XXIII mi ha aiutato, l’educatrice mi ha sempre accompagnato perché non avevo soldi, né lavoro, né la macchina. Ho fatto di tutto e di più per poter rimanere dove vivevo anche se lui mi ha minacciato a lungo e mi ha fatto soffrire. Poi finalmente il Tribunale mi ha dato ragione e dopo varie udienze il giudice ha decretato che mio marito uscisse di casa e siccome era stato molto violento, lo hanno allontanato da tutti i luoghi che io e mio figlio frequentiamo».
La battaglia di Fatma è durata quasi un anno. A quell’epoca non c’era ancora il Codice rosso, ovvero la Legge n. 69 del 2019 che ha incluso nuovi reati, procedure specifiche e sanzioni più aspre tra cui un’accelerazione nell’avvio del procedimento penale per alcuni reati – entro tre giorni - e l’aumento della pena per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi a un minimo di tre anni e un massimo di sette e per lo stalking al minimo di un anno a un massimo di sei anni e sei mesi. Lo stalking non è una malattia ma in qualche modo i suoi effetti sono a lungo termine ed una relazione di fiducia con una persona che supporta la vittima con atteggiamento non giudicante e un ascolto attivo, attento alle differenze culturali e di religione, è fondamentale per poter guarire.
 

Donne che aiutano altre donne

Dopo il divieto di allontanamento dai luoghi abitualmente frequentati da Fatma e da suo figlio, questa giovane donna marocchina si trova di fronte ad un’altra battaglia: ricominciare da capo, trovare un lavoro, crescere il proprio figlio da sola perché i familiari sono lontani, e ritrovare fiducia sia nelle persone della propria comunità etnica sia negli italiani che in alcuni casi non l’hanno creduta. Ma sono soprattutto le donne del suo Paese che venendo a conoscenza della sua storia si sono fatte in quattro per sostenerla. «Ho fatto tanti lavori, per mantenere mio figlio. Grazie ad una vicina ho trovato il mio primo lavoro in un autolavaggio, poi ho fatto la bidella, ho anche imparato a fare la mediatrice culturale nell’ambiente scolastico. Finché alla fine una signora del paese, che io ringrazio tanto, mi ha dato un lavoro fisso in un’azienda».
Con orgoglio racconta che per lei è stata una vera rinascita soprattutto quando ha preso la patente e ha iniziato ad avere un’autosufficienza economica «perché ti aiuta a riacquistare la tua dignità». E nella sua storia riconosce che alcuni incontri sono stati fondamentali, in particolare quelle donne che attorno a lei l’hanno sostenuta e incoraggiata dandole la possibilità di sentirsi importante, una donna e una madre di valore.
Prima era psicologicamente distrutta, conviveva con la paura, la sfiducia, sentiva rimbombarle nelle orecchie le parole di umiliazione che lui le diceva. E sentiva di vivere solo per soddisfare i suoi bisogni. «Secondo diverse tradizioni, purtroppo l’uomo, appena c’è l’atto di matrimonio, diventa titolare del corpo della donna. Perciò dopo avvengono anche delle violenze sessuali all’interno del matrimonio. Quello che mi ha aiutato tanto è la mia fede in Dio e capire che quello non era il mio destino. Il rispetto e l’ascolto che ho trovato nelle persone della Comunità Papa Giovanni XXIII, pur non essendo musulmani come me, mi ha aiutato tanto e per questo ho deciso anche io di aiutare altre donne con il mio stesso passato».
Nel tempo libero, oggi Fatma continua come mediatrice volontaria a tradurre e supportare le operatrici che si occupano di violenza di genere. Ha incontrato anche durante il Covid una donna tunisina ed una turca dando un sostegno prezioso per ricominciare a fidarsi di servizi sociali e delle organizzazioni umanitarie. Le ha aiutate soprattutto a fare la scelta giusta per amore dei figli, ad esserne protagoniste, «perché io so bene cosa vuol dire essere sottomessa, subire violenza, avere paura. Per questo sarò sempre pronta ad aiutare altre donne che sono in difficoltà».
Durante quegli anni di offese, botte, umiliazioni e poi durante gli anni in cui pian piano ha ricostruito la sua vita, c’è una frase che l’ha aiutata molto e che spesso ripete a chi cerca di uscirne. Tradotta dall’arabo suona così: «La pazienza possiede le chiavi della felicità e del buonumore», ovvero bisogna avere tanta pazienza per arrivare all’obiettivo.
Nel caso di Fatma, come di tante altre donne vittime di stalking, è necessario però che anche la giustizia faccia il suo corso fermando tempestivamente chi si sente padrone della vita altrui. Solo così di stalking si può davvero guarire.