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10 Marzo 2023

La casa famiglia è la nostra salvezza

La testimonianza
La casa famiglia è la nostra salvezza
Debora e Silvio hanno un passato complicato alle spalle, ma fin dal fidanzamento scoprono nella condivisione diretta il senso di tutto il loro cammino. E testimoniano che sono i poveri che salvano.
«Ho conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII nel 2014 in una Comunità Terapeutica in Bolivia, dopo una vita piuttosto sregolata. Sono entrato per convenienza, perché entrare mi avrebbe permesso di ottenere il passaporto. Sono stato sette mesi, e il mio atteggiamento era sfrontato e presuntuoso». A parlare è Silvio, di 44 anni, Romano di origine.
«Il percorso che mi ha cambiato la vita – continua – non l’ho cercato. Posso vedere la mano di Dio nella mia vita. Quello che sono oggi è frutto della mia storia e dell’incontro col Signore». Ma il percorso non è breve: dopo la comunità in Bolivia viene mandato in Italia per un lavoro più profondo. «A Lodi ho avuto la possibilità di fare un lavoro interiore fino a scoprire un semino di bene al quale mi sono dovuto arrendere. Tutto quello che avevo creduto si dissolveva, quello che mi si presentava, tipo credere in Dio, era prima inimmaginabile. Mi sono sentito amato così come ero. Mi sono arreso al Signore, mi sono arreso alla Comunità Papa Giovanni XXIII, dicevo a me stesso che non faceva per me, esperienza dopo esperienza ero sempre più docile».
Le esperienze di cui parla Silvio sono quelle di animazione con i giovani, e con le unità di strada: «Ricordo come fosse ieri l’incontro con una persona senza fissa dimora che ci ha detto: “Noi vi ringraziamo non perché ci portate il panino ma perché in quel momento noi per voi smettiamo di essere invisibili”».

L’incontro con la casa famiglia

Silvio durante il cammino terapeutico ha la possibilità di frequentare una casa famiglia, e di unirsi ai momenti mensili di comunità: «Vedevo queste cose belle, mi sembravano strane ma c’era qualcosa che mi muoveva dentro. C’era qualcosa di questa Comunità che mi piaceva». È in quel periodo che conosce Debora, che poi diventerà sua moglie, ma i suoi viaggi non finiscono qui.
Finisce il programma terapeutico ad Ischia e chiede aiuto al Responsabile della Zona: «Come si fa a capire se uno è chiamato a questa vocazione?». E così inizia il “pvv”, il periodo di verifica vocazionale, un «percorso di rinascita e di risveglio».
Viene mandato a Pompei e lì inizia a vivere la casa famiglia. Stando con i bambini disabili molto gravi «inizia una consapevolezza che all’inizio facevo fatica ad accettare».
Nel frattempo inizia una relazione a distanza con Debora che non era ancora la fidanzata. Entrambi scrivono in un quaderno le loro esperienze e quello che stanno maturando, e poi se lo scambiano.
In entrambi emerge la chiarezza della casa famiglia.
«Se fossimo arrivati a sposarci saremmo stati casa famiglia – spiega Debora – per entrambi era più che un desiderio, era come un “essere maturi per…”».

Santa Rita e i casi impossibili

Ma Silvio faceva la spola tra Ischia e Pompei, mentre Debora era al nord. «Ci trovavamo a metà strada, che risultava essere Firenze, vicino ad un santuario Mariano. Lì incontriamo la storia di Santa Rita, e iniziamo a fantasticare dell’eventualità della casa famiglia. Santa Rita è la santa dei casi impossibili, e i primi casi impossibili recuperati eravamo noi! Era come se la storia fosse già scritta». Così decidono che la loro casa famiglia sarebbe stata dedicata alla Santa.
Anche Debora, Veneta, di Valdagno, viene dall’esperienza della Comunità Terapeutica nella quale è entrata a 21 anni, nel Vicentino. Anche lei nel percorso di recupero fa esperienze, in particolare nei campi di condivisione a Rimini, ma quando «faccio esperienza nella Capanna di Betlemme di Rimini – la struttura che accoglie i senza fissa dimora – mi innamoro del mondo delle capanne.
Finita la Comunità terapeutica avevano bisogno di una figura femminile in capanna a Milano, e sono andata».
Nel frattempo andava 3-4 volte a settimana a Crema in una casa famiglia dove viveva una coppia, con i loro figli naturali e tre donne disabili gravi.
«Dovevo partire per il Cile ma mi è stato chiesto di dare la disponibilità in quella casa famiglia per un mese, perché la coppia si spostava. Alla fine sono rimasta 8 anni. Ho dovuto rinunciare al Cile per queste tre donne, ma adesso posso dire che è stata un’esperienza piena, di una vita degna di essere vissuta».

Come nasce la coppia

Ma come si erano innamorati? «Ci siamo conosciuti – racconta Silvio – alla Giornata comunitaria (l’incontro mensile) della zona Crema perché quelli che stavano facendo la Comunità Terapeutica giocavano con i bambini mentre i genitori partecipavano all’incontro». «Lui sfilava davanti a me con una bambina disabile grave» scherza Debora. 
«A parte gli scherzi Silvio mi ha colpita – racconta –. Sentivo che ha fatto una vita un po’ difficile ma alla fine è un bravo ragazzo, con dei valori».
E Silvio da che cosa è stato attratto? «Mi è piaciuta la sua semplicità, che non voleva essere seduttiva, il suo aspetto duro fuori con aspetti dolcissimi dentro, in contrasto con la sua apparenza».
Lei ebbe il coraggio di fare il primo passo ed è cominciata la loro storia. Per il matrimonio dovevano fare una grande festa con 500 invitati ma è arrivato il Covid. «C’erano problemi per i documenti che erano rimasti bloccati nei Comuni, ma a noi interessava il sacramento e ci siamo fatti aiutare da un frate. Abbiamo lasciato i nostri bei vestiti già pagati in negozio, abbiamo ordinato le fedi su Amazon… l’essenziale. E ci siamo sposati noi due, con il sacerdote e i 2 testimoni. Da 500 che dovevamo essere alla fine eravamo in 5».

Nel piccolo appartamento c’è aria di famiglia

Ora vivono a Crema, in un piccolo appartamento che era libero.
«Viviamo con due bimbi accolti: E. di 6 anni, arrivato come dono del matrimonio, un mese dopo esserci sposati, e P. di 18 mesi arrivato il 24 dicembre del 2021. Sono bimbetti bellissimi ma affetti rispettivamente da sindromi rare ed ultra rare. Con noi c'è anche una signora psichiatrica di 50 anni, che è un po’ la zia di casa, ed abbiamo da poco accompagnato in zona Paradiso un'altra signora oligofrenica, con gravi problematiche fisiche, che è stata un po' la nostra nonnina... L’averla accompagnata è stata un’esperienza di vita profonda, sofferta, ma che ci ha donato una prossimità particolare col Signore, facendoci quasi sentire inchiodati col cuore a quella croce».
«L’appartamento è piccolo e tutta la vita si svolge in una sala, ma siamo certi che il Signore attraverso questo ci sta guidando, ci dice “un passo alla volta”. Non è facile vivere tutti insieme con esigenze diverse, però in un ambiente così si creano legami che danno sapore di famiglia, ci ha permesso di creare quel legame familiare che in una casa grande sarebbe stato dispersivo» spiega Debora.
«È utile anche per noi come coppia: un ambiente così ci fa mettere l’amore che ci lega di fronte ad ogni problema» aggiunge Silvio.
«Un aneddoto: Silvio di giorno operatore al centro diurno della zona – dice Debora – io restavo a casa con P. piccolo e la nonnina. Quando lei era in ospedale lui la chiamava. Voleva stare sempre attaccato al suo letto. Se n’è andata con un bacio sulla fronte di P.».
«Questa scelta – continua – mi ha fatto trovare il mio posto nel mondo. Una vita degna di essere vissuta, che mi salva. Sotto casa c’è un bar di persone della nostra età che lavorano, bevono, fumano. Ci dicono che siamo bravi, ma quando me lo dicono rispondo sono loro che salvano noi».
Nella casa famiglia – conclude Silvio – trovo il senso di tutto il mio percorso. La mia salvezza è vivere il Vangelo, non vedrei altro modo. Senza casa famiglia non mi sentirei compiuto. Questa cosa è stata chiara fin da fidanzati, eravamo consapevoli che il Signore ci aveva pensati così».
«Abbiamo scelto di sposarci il 2 maggio, perché c’era il ponte, ma poi abbiamo scoperto che è la data di morte della beata Sandra Sabattini… un altro piccolo segno sul nostro cammino».