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21 Ottobre 2025

La corsa agli armamenti alimenta la crisi climatica

I paesi NATO sono al 3,5% del PIL
La corsa agli armamenti alimenta la crisi climatica
Foto di U.S. Air Force photo by Tech. Sgt. Robert J. Horstman
La spesa militare mondiale continua a crescere a ritmi vertiginosi. Un nuovo rapporto rivela come questo aumento stia incidendo pesantemente sulle emissioni di CO2, aggravando la crisi climatica globale.
Dall’Ucraina a Gaza, dal Sudan allo Yemen, i conflitti si moltiplicano e con essi cresce la spesa militare. Nel 2024 ha raggiunto la cifra record di 2.700 miliardi di dollari, il 9 per cento in più rispetto all’anno precedente. È il livello più alto dalla fine della Guerra fredda, e secondo le Nazioni Unite equivale al prodotto interno lordo di tutti i Paesi africani messi insieme, o a tredici volte gli aiuti che i Paesi ricchi destinano al Sud globale.
Questo aumento è destinato a continuare. La NATO, che rappresenta circa il 55 per cento della spesa militare mondiale, ha fissato un nuovo obiettivo: portare la spesa dei Paesi membri dal 2 al 3,5 per cento del PIL, con un ulteriore 1,5 per cento per misure di “sicurezza” aggiuntive. Una decisione che rischia di innescare una nuova corsa agli armamenti e di deviare risorse fondamentali per combattere povertà, disuguaglianze e crisi ambientale.

Ma quale impatto ha tutto questo sul clima?

Secondo il rapporto Scientists for Global Responsibility, firmato da Stuart Parkinson, la macchina militare globale – comprese le forze armate e le loro filiere industriali – è responsabile di circa il 5,5 per cento delle emissioni mondiali di gas serra. L’aumento della spesa militare, sostiene lo studio, potrebbe far crescere le emissioni fino a 59 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti.
Le forze armate sono tra i maggiori consumatori di combustibili fossili: navi da guerra, aerei da combattimento e carri armati richiedono enormi quantità di carburante. Anche la produzione di armi e mezzi militari dipende da materiali ad alto impatto come acciaio, alluminio e terre rare. E i conflitti distruggono serbatoi naturali di carbonio, come foreste, zone umide e infrastrutture energetiche.
Lo studio stima che ogni aumento di 100 miliardi di dollari nella spesa militare globale comporti 32 milioni di tonnellate di nuove emissioni di CO2, anche se il margine d’incertezza resta elevato per la scarsità di dati ufficiali.

Le emissioni di uno stato intero

Applicando questo calcolo alla NATO, Parkinson conclude che l’aumento della spesa tra il 2019 e il 2024 ha generato circa 64 milioni di tonnellate di emissioni, pari a quelle dell’intero Bahrain. Raggiungere il nuovo obiettivo del 3,5 per cento del PIL significherebbe aggiungerne altre 132 milioni, più delle emissioni annuali del Cile.
Se mantenuta nel tempo, questa tendenza avrebbe un effetto cumulativo enorme: dieci anni di spese ai livelli previsti per il 2024 equivarrebbero alle emissioni annuali del Brasile. E ciò senza considerare le emissioni dirette causate dai conflitti e dalla ricostruzione postbellica.

Decarbonizzare gli eserciti

Il rapporto chiede con urgenza una maggiore trasparenza e un sistema di rendicontazione obbligatorio per le emissioni militari, oggi in gran parte escluse dagli inventari ufficiali sul clima. Anche perché, sottolinea Parkinson, la decarbonizzazione delle forze armate è particolarmente difficile: il settore militare riunisce tecnologie tra le più inquinanti, come l’aviazione, la navigazione, la metallurgia e la chimica.
Per ridurre davvero le emissioni, conclude l’autore, è necessario investire nella diplomazia, nella costruzione della pace e nel disarmo, non in nuove armi. Quando la spesa militare cala, le emissioni diminuiscono più rapidamente, perché vengono dismesse per prime le tecnologie più energivore.
In un momento in cui gli scienziati avvertono che la soglia di 1,5°C dell’Accordo di Parigi potrebbe essere superata entro pochi anni, la corsa globale agli armamenti appare incompatibile con gli sforzi necessari per evitare un cambiamento climatico catastrofico.