In Toscana c'è un borgo che si chiama Tutto è vita, dove la morte non è più un tabù. Ecco l'esperienza raccontata da padre Bormolini, fondatore del borgo.
Imparare a vivere davvero significa anche accettare la morte. Non come nemica, ma come maestra silenziosa capace di mostrarci ciò che conta davvero. È questa la visione che anima il borgo toscano “Tutto è vita”, un luogo unico nel suo genere dove
spiritualità e quotidianità si intrecciano per trasformare il rapporto con la fine in un cammino di rinascita. Nel borgo prende forma una comunità che affronta la morte senza paura, trasformandola in un cammino di crescita.
Abbiamo parlato con il suo fondatore,
padre Guidalberto Bormolini, che sarà presente come relatore al
Convegno "Kronos e Kairos” organizzato dalla Cooperativa Comunità Papa Giovanni XXIII il 23 e 24 ottobre a Rimini.
Per padre Bormolini «la morte non è più un tabù, ma una maestra di vita. Non qualcosa da fuggire o da nascondere, ma un invito a scoprire il senso profondo della nostra esistenza». Qui la spiritualità si intreccia con la vita quotidiana, offrendo a chi arriva un luogo di ascolto, accoglienza e rinascita.
Il cuore dell’esperienza è la meditazione, intesa come «un esercizio di piccole morti e rinascite. Fermare il corpo, fermare la mente: ogni volta è come morire a ciò che ci agita, per rinascere a una nuova consapevolezza». Non si tratta di un gesto astratto, ma di un allenamento che rende più capaci di affrontare il dolore, la malattia e il distacco, trasformandoli in occasione di speranza.
La comunità si fonda sull’idea che
la felicità non nasca dal possesso ma dalla qualità dei legami: «Non sono gli oggetti a darci pienezza, ma le relazioni di cura, d’amore. È questo che ci protegge dalla solitudine e ci permette di affrontare le crisi globali senza sentirci smarriti». Un pensiero che fa da eco alle parole di Don Oreste Benzi, a quello che definiva “Il bisogno di Assoluto”. In un’epoca dominata dal consumo, anche per Bormolini cresce la sete di infinito, una ricerca che non si accontenta di esperienze virtuali: «Bisogna partire dall’esperienza, bisogna incontrare Qualcuno, toccare con mano che la spiritualità non è evasione, ma vita concreta».
Nel borgo, questa concretezza si manifesta anche nella quotidianità: la Provvidenza diventa sostegno tangibile, capace di intervenire ed indirizzare verso il senso della vita. «Ogni giorno lo vedo un po’ come un miracolo», racconta Bormolini. È così che imparare a morire diventa, paradossalmente, il modo più autentico per imparare a vivere davvero.
Per l’intervista completa:
https://cpg23.org/imparare-a-morire-per-vivere-davvero/