Nel dicembre scorso in un cantiere edile a Palermo vengono trovati, in un giaciglio di fortuna, un neonato con la sua mamma. Scattano immediatamente i soccorsi, i due vengono trasferiti in ospedale, ma la mamma decide di andarsene abbandonando il piccolo nella struttura sanitaria. Il fatto viene segnalato subito alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, che chiede e ottiene l'adottabilità del neonato. Essendoci lo stato di abbandono, il minore va collocato in una famiglia adottiva, come prevede la legge. Ed è quello che è successo, ma due mesi dopo. Due mesi in cui un neonato è rimasto ricoverato in ospedale, come fosse malato, anziché essere accudito da un papà e una mamma affidatari.
Perché questo è lo scopo dell’affido familiare, assicurare a un minore temporaneamente privo di un nucleo familiare idoneo l’accoglienza in una famiglia, in attesa che la sua situazione si definisca e venga disposto il rientro nella famiglia di origine o il passaggio in una famiglia adottiva. Perché questo non è avvenuto?
Sul caso di Ivan (nome di fantasia) è subito intervenuta la Comunità Papa Giovanni XXIII con una lettera al quotidiano Avvenire, pubblicata integralmente su Semprenews.it (oltre 30 mila visualizzazioni, segno di quanto il tema interessi). Nel testo, a firma di Matteo Fadda, si denuncia «l’ingiustizia di lasciare per due mesi in ospedale un neonato senza intraprendere altri percorsi temporanei per rispondere nell’immediato ai bisogni prioritari dei bambini», si sottolinea che «il bisogno di figure genitoriali è un bisogno acuto e profondo» e si precisa che «l’affidamento familiare è la risposta immediata per far sì che bambini adottabili non debbano vivere in ospedale o in comunità in attesa che si trovi la famiglia adottiva per loro».
Un appello che sembra provenire dal passato, quando la risposta istituzionale era prevalente. Il fatto che oggi si debba ribadire la validità dell’affido familiare e la sua priorità rispetto ad altre soluzioni suona come un campanello d’allarme.
Decidiamo di approfondire e scopriamo altri segnali che indicano come qualcosa si stia incrinando in un percorso che sembrava ormai consolidato.
Cosa sta succedendo?
Siamo nell’anno del Centenario di don Benzi, e viene subito alla mente uno degli slogan che hanno guidato la sua azione negli anni 80 e 90: «Chiudiamo gli istituti, apriamo le famiglie!».
Se negli ultimi anni della sua vita il sacerdote riminese è divenuto famoso per l’impegno a liberare le vittime del racket della prostituzione, nei due decenni precedenti uno dei suoi obiettivi prioritari è stato assicurare ad ogni bambino una famiglia.
Una battaglia condotta con successo. Ce lo conferma Valter Martini, segretario del Tavolo nazionale affido, che negli anni 90 è stato animatore generale del Servizio Minori della Comunità Papa Giovanni XXIII.
«Negli anni 70 la Comunità Papa Giovanni XXIII si occupava soprattutto di persone con disabilità e di minori senza famiglia – racconta Martini – e per entrambe le categorie la risposta principale, se la famiglia non reggeva, era l’istituto. Don Oreste era stato colpito da alcune situazioni che lo avevano interpellato personalmente, aveva approfondito i bisogni del bambino nella fase di sviluppo consultando anche testi di psicologia e aveva capito che la risposta giusta era la famiglia».
Dare una famiglia ad ogni bambino, tuttavia, sembrava all’epoca un obiettivo irraggiungibile. «I minori ricoverati negli istituti assistenziali erano 115 mila. Molti istituti, poi, erano gestiti da organizzazioni religiose e c’era il rischio di creare una spaccatura all’interno della Chiesa».
«Eppure ci siamo riusciti – prosegue Martini – seguendo una strategia precisa, che don Oreste ci aveva indicato in cinque punti.
La diffusione dell’affido familiare in Italia è avvenuta grazie alla legge n. 184 del 1983, e anche la Comunità ha dato il proprio contributo di idee ed esperienze che hanno ispirato queste norme. Ma un ruolo ancora più forte c’è stato con la legge 149 del 2001 che ha stabilito il definitivo superamento degli istituti.
«Da tempo si sentiva l’esigenza di una riforma che indirizzasse in modo più deciso verso una risposta di tipo familiare – prosegue Martini –. Avevamo maturato l’idea che l’unico modo per superare definitivamente gli istituti fosse stabilire una data entro la quale sarebbero stati chiusi. Grazie all’interessamento del Forum delle famiglie, presieduto allora da Luisa Santolini, noi ed altre due associazioni appartenenti al Forum – Aibi e Famiglie per l’accoglienza – abbiamo potuto dare il nostro contributo al testo che era in elaborazione alla Commissione Infanzia della Camera. Ci trovavamo ogni settimana con la presidente della Commissione e nel giro di un mese siamo arrivati ad una legge che ha segnato una svolta: l’affido non era più una delle varie possibilità, ma la scelta prioritaria per un minore che si fosse trovato temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, mentre la stessa legge stabiliva che nel giro di 5 anni il ricovero in istituto sarebbero stato definitivamente superato.»
La riforma introdotta dalla legge 149/2001 ha dato un orientamento chiaro a servizi sociali e giudici: il primo diritto di un minore è quello di crescere nella propria famiglia di origine, ma quando questa non è più adeguata e gli interventi di supporto non sono sufficienti, il minore «è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno». Solo ove non sia possibile l’affidamento ad una famiglia, stabilisce la legge, è consentito l’inserimento in una comunità di tipo familiare.
Da qualche anno però la tendenza si sta invertendo, e gli inserimenti in comunità superano gli affidi familiari, lo attesta il report I minorenni in affidamento familiare e nei servizi residenziali attraverso i dati SIOSS (Sistema Informativo dell’Offerta dei Servizi Sociali ) anno 2023, diffuso lo scorso dicembre.
«Al 31/12/2023 – si legge – il numero di minorenni in carico in affidamento familiare rilevato dal SIOSS è di 15.992 soggetti comprensivo di tutte le forme di affidamento e dei MSNA (minori stranieri non accompagnati – ndr), con una riduzione del 2,4% rispetto all’anno precedente (16.382 soggetti)». Un dato in calo anche escludendo i MSNA: «15.006 minorenni in una qualche forma di affidamento familiare (-1,4%
rispetto al 2022)»
Salgono, invece, gli inserimenti in comunità: «Al 31/12/2023 risultano complessivamente accolti nei servizi residenziali, inclusi i MSNA, 26.010 minorenni (+2,8% rispetto al dato registrato nel 2022)». Un dato in crescita anche escludendo i MSNA: «18.304 minorenni accolti in strutture residenziali al netto dei MSNA (+1,2% rispetto all’anno precedente)».
Sono numeri preoccupanti, di cui le associazioni aderenti al Tavolo nazionale affido sono ben consapevoli. «Mentre alcuni anni fa gli affidi era di più rispetto agli inserimenti in comunità – commenta Martini – ora la tendenza si è invertita con una forbice che si sta dilatando».
Le cause, secondo lui, sono molteplici. Un problema è culturale: «L’inversione di tendenza coincide con l’enorme risonanza mediatica che ha avuto nel 2019 il caso Bibbiano. Da allora nell’opinione pubblica si è diffusa l’idea che l’affido strappi il minore alla famiglia di origine, mentre è vero l’opposto, l’affido nasce come aiuto al minore ma anche alla sua famiglia». Di fatto i servizi sociali oggi tendono a far rimanere il più possibile il minore in famiglia anche quando ci sono dei problemi, ma questo comporta dei rischi. «Se si ritarda troppo, si arriva a cercare una nuova famiglia quando la situazione è molto compromessa, con ferite difficili da ricucire, per cui anche l’affido diventa problematico».
E dal Report emerge che gli affidi consensuali sono solo uno su quattro: «il 75% degli affidamenti risulta di tipo giudiziale, con un aumento di quasi 10 p.p. rispetto all’anno precedente». Un altro elemento di difficoltà è l’indeterminatezza della durata dell’affido, con situazioni che si protraggono senza prospettive chiare, e questo mette in difficoltà le famiglie e i minori.
Tra le cause di questa crisi, secondo Martini, c’è la carenza di servizi dedicati: «Analizzando il dato a livello di ATS (Ambiti territoriali stabiliti dalle Regioni in cui si realizzano la programmazione e il coordinamento degli interventi dei servizi sociali – ndr) – si legge ancora nel Report – risulta che il 28,7% di questi ha un centro affidi/servizio dedicato che copre l’intero territorio dell’ambito, nel 6,2% è presente almeno un centro affidi ma non copre la totalità del territorio, nel restante 65,1% degli ambiti non è presente nessun centro affidi.»
Per invertire la tendenza, le associazioni del Tavolo nazionale affido da anni hanno avanzato la proposta di istituire una Giornata nazionale dell’affido il 4 maggio (anniversario dell’approvazione della legge n.184/83). «Da oltre un anno giace al Senato una proposta di legge, è stata affidata alla 2° Commissione Giustizia, ma fino ad oggi non ci risulta ancora iniziata la discussione» conclude Martini.
Per questo il 7 maggio il Tavolo ha organizzato al Senato un convegno dal titolo Crescere insieme: famiglie, reti ed istituzioni per l’affido. Solo attraverso una rinnovata alleanza l’affido potrà tornare a favorire la vicinanza anziché l’allontanamento.