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5 Marzo 2021
Ultima modifica: 6 Marzo 2021 ore 09:25

L'impatto di Francesco visto da Baghdad

Il responsabile Apg23 in Medio Oriente: «La visita di Francesco toccherà il cuore degli iracheni»
L'impatto di Francesco visto da Baghdad
Foto di ANSA/Alessandro Di Meo
L'analisi di Antonio De Filippis, responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII in Medio Oriente. L'associazione opera a Baghdad dal 2015, accogliendo i disabili e incontrando varie comunità religiose. «Qui la religione è tutto, se tocchi quel tema tocchi la sfera personale, familiare, sociale e politica»
Papa Francesco è arrivato in Iraq. Una visita considerata “storica” in quanto è il primo pontefice a recarsi nella “terra di Abramo”, padre comune delle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islamismo.
Quali obiettivi persegue il Pontefice? Si possono intuire dall’intenso programma di questi tre giorni, a partire da oggi pomeriggio 5 marzo fino a lunedì 8 mattina quando ripartirà in aereo da Baghdad per tornare a Roma. Un percorso che si snoda attraverso vari luoghi significativi – Baghdad, Najaf, Ur, Erbil, Mosul, Qaraqosh – e che lo metterà alla prova anche sul piano fisico.
Il programma completo si può trovare nel sito Vatican News, dal quale si possono seguire anche in diretta gli incontri più significativi.
Tanti gli appuntamenti, carichi di significati e di aspettative.

Ne parliamo con Antonio De Filippis, riminese, responsabile della Zona Medio Oriente della Comunità Papa Giovanni XXIII, attualmente operativa in Iraq, Israele e Palestina. Antonio è anche tra i fondatori di Operazione Colomba, il corpo civile di pace promosso dalla comunità di don Benzi per intervenire nelle zone di conflitto favorendo percorsi di pace.
La Comunità è presente a Baghdad dal 15 febbraio 2015. Fu chiamata dall’allora nunzio apostolico Giorgio Lingua, fossanese di origine e amico fin dall’infanzia di Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della Papa Giovanni.
Prima dell’era Covid Antonio andava 3/4 volte all’anno a Baghdad per trovare i volontari e per intessere relazioni con la realtà locale. «Organizziamo incontri con le autorità religiose dei diversi riti orientali e con altre minoranze. Per presentarci e porgere un saluto ma soprattutto per ascoltare questo mondo così differente dal nostro e comprendere i bisogni della gente.» 
Ora si tiene in contatto telefonico o via web con i volontari.
 
Chi opera attualmente a Bagdad?
«Attualmente sono presenti due membri della nostra Comunità, Stefano Fecchi e Claudio Didero.»
 
Dove si trova la vostra struttura?
«Siamo in centro, nel quartiere latino, dove è presente anche l’Arcivescovo Monsignor Sleiman, una casa di riposo, una scuola e varie congregazioni. Una volta c’era una forte presenza di cristiani, oggi non è più così.»
 
Che tipo di attività svolgete? Avete una casa famiglia?
«Nella normativa attuale non è prevista una struttura come le nostre case famiglia, con accoglienze residenziali di tipo familiare. Noi collaboriamo con le suore di Madre Teresa di Calcutta che accolgono 33 bambini con grave disabilità. Arrivati al quattordicesimo anno di età questi ragazzini per la legge locale devono lasciare la struttura per minori e andare in un istituto governativo. Seguiamo in particolare tre di loro che hanno ormai più di 14 anni e stiamo cercando di avere l’autorizzazione per accoglierli nella nostra casa. Intanto vengono da noi per un’accoglienza diurna quattro volte alla settimana, negli altri giorni sono i nostri volontari ad andare dalle suore per dare una mano. In casa con Stefano e Claudio vive anche un signore anziano iracheno, che fa da mediatore per la lingua.»
 
Come è vista la vostra presenza da parte della gente locale?
«La nostra è una esperienza nuova per il mondo arabo, è un percorso lento, occorre conoscere e farsi conoscere. Si parte da una attività di volontariato, si cerca di prendere contatti con il territorio e di costruire relazioni di stima e simpatia. Lavoriamo perché la nostra casa possa essere un punto di riferimento diurno per i ragazzi con disabilità del territorio.»
 
Ci sono rapporti significativi con altre organizzazioni?
«Oltre che con le suore, abbiamo buoni rapporti con esponenti di altre Chiese cattoliche orientali. Collaboriamo anche con una organizzazione giovanile della società civile, aderente all’Iraqi social forum: un gruppo aconfessionale che si riunisce in nome della comune cittadinanza e opera in favore delle categorie più svantaggiate come i disabili e i poveri. Questi giovani si impegnano anche nella lotta contro l’inquinamento dei fiumi Tigri e Eufrate, per promuovere i diritti delle donne, per il lavoro, per l’accesso all’acqua e alla luce elettrica. Tramite noi, due di questi giovani iracheni sono stati selezionati per l’evento The economy of Francesco

Cristiani in Iraq diminuiti dell'80%

Secondo dati elaborati dall’ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale, i cristiani in Iraq sono diminuiti dell’80% negli ultimi 20 anni. Se nel 2003 rappresentavano il 6% della popolazione, oggi la loro presenza oscilla tra lo 0,4 e lo 0,7 per cento, tanto che si parla di «rischio di estinzione». Non deve essere facile inserirsi in questo contesto come organizzazione cattolica.
«Qui i cristiani sono una minoranza e vivono la vulnerabilità delle minoranze. Il mondo cattolico è composto da diverse Chiese di rito orientale e si presenta a noi in maniera molto diversa da quella a cui siamo abituati in occidente, dove il laicato ha una lunga tradizione di impegno attivo nel sociale. Il nostro inserimento nella Chiesa locale si è costruito a piccoli passi.»
 
Ci sono rischi dal punto di vista della sicurezza nell’essere identificati come cristiani?
«Il rischio è dato dal fatto che siamo bianchi più che dall’essere cristiani. Questo può far nascere un clima di sospetto, soprattutto da parte dei gruppi antioccidentali. È questo che ci espone di più. In passato c’era maggiore tensione, per la paura dell’Isis, oggi meno, anche se ci consigliano sempre di muoverci con prudenza data la situazione di instabilità e gli episodi di violenza ancora presenti. Il fatto però che i nostri Stefano e Claudio siano sempre insieme ai disabili crea nei nostri confronti sentimenti di simpatia e benevolenza. A volte la gente ci ferma e ci dice: “Dio ti benedica”, oppure chi gestisce un chiosco ti offre qualcosa da mangiare. La condivisione con le persone disabili è un carta di credibilità ovunque, al di là della cultura e della religione.»
 
Veniamo alla visita del Papa. Nel videomessaggio inviato agli iracheni in vista del suo viaggio, Francesco si è definito «pellegrino penitente per implorare dal Signore perdono e riconciliazione dopo anni di guerra e di terrorismo». Perché secondo te ha usato questa espressione?
 «Francesco si sente fratello di tutti, si sente anche figlio di Abramo insieme ai musulmani e agli ebrei. Si sente nel dramma dell’altro, e poiché sottolinea spesso che tutto è connesso, si sente anche corresponsabile delle sofferenza del popolo iracheno e mediorientale. È portatore di un messaggio rivolto a tutti, perché tutti ci sentiamo in qualche modo responsabili della situazione attuale di questo popolo e della necessità di costruire un futuro diverso.»

Il dialogo con il mondo sciita 

Francesco si rivolge ai cristiani ma anche ai musulmani. Sabato è previsto l’incontro con il  Grand Ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani e poi l’incontro interreligioso. In quanto esponente di Operazione Colomba tu ti sei occupato molto di questo tema. Qual è secondo te la strategia seguita da Papa Francesco?
«Scegliendo il nome di Francesco, ha indicato i poveri, il creato e la pace come linee di cammino su cui ha impostato il suo pontificato. Come San Francesco è andato dal sultano, anche Francesco offre la convinzione che “siamo tutti fratelli”: un messaggio allo stesso tempo debole e forte, a seconda di come lo si voglia interpretare. Con questo viaggio lui vuole allargare il dialogo e l’impegno comune anche al mondo sciita, nell’ottica del documento di Abu Dhabi, già sottoscritto dal mondo sunnita, che punta a liberare la religione da ogni tipo di ideologia e a condannare ogni uso strumentale della fede e ogni violenza. C’era molta attesa per questa visita e penso che possa guarire tante ferite, favorendo l’incontro tra le diverse comunità religiose.»
 
E al di fuori della sfera religiosa?
 «Nel contesto islamico non c’è il concetto di laicità, la religione è tutto, quindi se tocchi quel tema tocchi la sfera personale, familiare, sociale e politica. A seconda di come interpreti la religione dai un taglio di violenza o un taglio di incontro. Il suo è un percorso di pace che vale per tutti.»
 
Che impatto potrà avere la visita di Francesco?
«Francesco con questa visita avvia un processo, come è solito dire. Dal programma si capisce che la sua non è una visita formale. È un incontro che non lascerà indifferenti, credo che riuscirà a toccare il cuore degli iracheni, favorendo la coesione sociale e creando un clima favorevole che potrà avere nuovi sviluppi.»