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17 Febbraio 2022
Ultima modifica: 17 Febbraio 2022 ore 08:07

Mani Pulite 30 anni dopo. Il paladino Antonio Di Pietro

Quella volta che intervistai l'ex magistrato Antonio Di Pietro simbolo di Mani Pulite: l'inchiesta che celebrò il funerale della Prima Repubblica. Mi disse: «Io sto dalla parte di Davide».
Mani Pulite 30 anni dopo. Il paladino Antonio Di Pietro
Foto di Daniel Dal Zennaro
Era il 17 febbraio 1992 quando sui giornali apparve per la prima volta l'espressione Mani Pulite, nome coniato per l'inchiesta che mandò in frantumi il mondo politico. Simbolo dell'operazione l'allora magistrato Antonio Di Pietro.
Il 17 febbraio 1992, esattamente 30 anni fa, ha inizio l’operazione denominata Mani Pulite. Tangentopoli parte con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di spicco del PSI milanese, colto in flagranza di reato con una mazzetta di sette milioni di lire appena consegnata da Luca Magni, un anticipo sul 10 per cento di un appalto da 140 milioni assegnato ad un’impresa di pulizie.
Il giovane imprenditore aveva deciso di ribellarsi al sistema consolidato di tangenti così i carabinieri avevano segnato le banconote, messo una telecamera nella valigetta ed infilato un registratore nella sua giacca facendo scattare l’operazione coordinata dall’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro con il capitano dei carabinieri Roberto Zuliani.

Il 3 giugno 1992, sempre lo stesso Chiesa, incastra Bettino Craxi, l'allora segretario del PSI che lo aveva definito un «mariuolo isolato»: lascerà l’Italia per rifugiarsi in Tunisia.

Mani Pulite diede il via ad una indagine che scoperchiò un sistema di pratiche illecite a base di corruzione e tangenti che coinvolgevano i principali partiti italiani e il mondo dell'imprenditoria e che provocherà un vero e proprio terremoto nella politica italiana.
I partiti italiani iniziarono a scricchiolare. La DC e il PSI si sciolsero e ciò decretò la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda.  
L’uomo acclamato dalla stampa come il fautore di tutto ciò, simbolo di Mani Pulite, è l’ex magistrato Antonio di Pietro che Sempre ha incontrato del 2003.

Chi è Antonio Di Pietro

L’immagine pubblica era quella di un uomo tutto d'un pezzo, di origini modeste. Di un uomo che si era fatto da sé, lavorando di giorno e studiando di notte.
Antonio Di Pietro, classe 1950. L'uomo venuto da Montenero di Bisaccia, un paesino del Molise, cresciuto in una famiglia di contadini.
Nel 1969 dopo il diploma a Roma come perito elettrotecnico emigra in Germania, dove lavora la mattina in una catena di montaggio e il pomeriggio in una segheria. Nel 1973 torna in Italia. Lavora e studia giurisprudenza. Da segretario comunale a commissario di polizia fino a diventare magistrato. Alla Procura di Milano dal 1984, in qualità di sostituto procuratore specializzato nei reati informatici e crimini contro la Pubblica Amministrazione, si guadagna il soprannome di “Tonino il telematico”, per il metodo da lui messo a punto utilizzando le nuove tecnologie, che gli permetterà di condurre le indagini di Mani Pulite in maniera innovativa.  
Ma quello che colpirà ancora di più l'opinione pubblica sarà la decisione di Di Pietro di lasciare la toga. È il 1994 quando, a conclusione dell'ultima requisitoria nel processo Enimont, si toglie con gesto plateale la toga. Chiude la carriera di Magistrato per approdare poi a quella politica.
Ministro dei lavori pubblici nel 1996 con il Governo Prodi. Ma mentre si trova in viaggio a Instabul riceve un avviso di garanzia a mezzo stampa. Si dimette.
Da inquisitore e paladino della giustizia, diventa inquisito per ben ventisette volte.
Un duro colpo per l'uomo. «In qualche modo bisognava fermarmi» mi disse.
Ma l'uomo che viene dalla terra non si abbatte. Prosciolto nel 1998 entra in politica e fonda un Movimento, L'Italia dei valori. Di nuovo sarà Ministro delle infrastrutture nel Governo Prodi II dal 17 maggio 2006 all'8 maggio 2008.
Di Pietro, al di là di quello che proponeva, colpiva per la determinazione che metteva nel perseguire il proprio ideale di giustizia.

Antonio Di Pietro con Nicoletta Pasqualini, giornalista di Sempre, durante l'intervista del 2003.
Foto di Caterina Balocco


L'incontro con Antonio Di Pietro in una scuola superiore

Mi capitò di incontrarlo nel corridoio di una scuola superiore dove lo invitarono a commentare il principio di uguaglianza enunciato nel terzo articolo della Costituzione italiana. Era la fine del 2003. Nel brevissimo tempo che ci fu concesso ebbi la possibilità di conoscere un po' più da vicino l'uomo che si celava dietro il “paladino della giustizia”. Quali erano le motivazioni che lo spingessero a spendersi contro le ingiustizie.

«Quando ero ragazzo – mi raccontò - stavo in campagna e ho pensato che forse bisognava fare qualcosa in più, rispetto al punto di partenza, perciò mi sono impegnato. Cammin facendo mi sono accorto che c'erano molte ingiustizie e che soprattutto, a differenza di ciò che diceva la Bibbia, vinceva più spesso Golia che Davide. Allora mi è piaciuto di più stare dalla parte di Davide.»

Volevo stare con Davide

Una forza legata alle sue origini o c’è qualche altro motivo?
«Quando ho fatto il muratore cercai di fare i muri dritti; quando ho fatto il poliziotto di arrestare i delinquenti; quando ho fatto il giudice di assicurare davanti alla legge che la legge fosse uguale per tutti, e se faccio il parlamentare mi batto per la difesa delle fasce sociali più deboli. Faccio soltanto il mio dovere. Rifiuto chi dice che ci sia una missione. C'è un dovere civico e quel che faccio è solo l'esercizio di un dovere.»
 
Nel momento di maggior consenso, lei ha lasciato la toga. Perché?
«L'ho lasciata più che spiegabilmente, anche se ogni giorno qualcuno dice: "inspiegabilmente”. Provate a ripassare quello che successo per Telecom-Serbia oggi: è successo a me anni fa. Io mi sono dimesso per la ragione opposta per la quale Berlusconi non si dimette oggi. Facevo il magistrato e la mattina dovevo incriminare, arrestare, processare, interrogare, perquisire, sequestrare materiale di persone che il pomeriggio diventavano i miei teste d'accusa. In pieno conflitto di interessi, chi avrebbe creduto più all'inchiesta Mani pulite?
Dimettermi e mettermi a disposizione della Magistratura l'ho fatto per riaffermare il principio che tutti siamo uguali di fronte alla legge, e quando c'è qualcuno che viene accusato di qualcosa, si deve affidare alla giustizia, altrimenti non è credibile.
L’anomalia non sono io che mi sono dimesso: mi sono dimesso perché sono stato accusato, anche se ingiustamente. L'anomalia è di chi non si dimette o quanto meno non si fa processare.»

Ero il terzo uomo da ammazzare 

Quanto ne ha sofferto?
«A me è dispiaciuto dal punto di vista umano e professionale. Certamente non l'avrei fatto di mia scelta, se avessi potuto scegliere. Il problema, come dice di recente anche un provvedimento dei giudici di Caltanisetta, che a quell'epoca io ero il terzo uomo da ammazzare. In qualche modo bisognava fermarmi. Nei miei confronti è stata scelta una strada diversa da quella dell'omicidio: quella della delegittimazione morale, che è un po' la morte civile. È chiaro, quindi, che le dimissioni erano necessarie per poter rivendicare e salvare il mio onore. Dal punto di vista umano un prezzo altissimo. Felice sarà quel paese in cui chi fa il proprio dovere, poi, non ne deve pagare le conseguenze.»
 
Chi è oggi Antonio di Pietro?
«Sono un politico che fa attività politica con un partito: l'Italia dei valori, con l'intenzione di rilanciare la questione morale nel sistema della politica. Noi vogliamo che ci sia una politica degli interessi dei cittadini e non una politica come strumento per gli interessi propri.
Vediamo che oggi, sempre più, si ritorna alle pratiche e anche ai personaggi di un tempo, a scapito di una migliore economia e di una migliore democrazia nel nostro paese.»

Ai cittadini si chiede un comportamento eticamente corretto e ai politici?

Cos’è per lei la giustizia?
«È semplicemente il minimo etico. L'etica ancora di più della giustizia. La giustizia quella parte dell'etica che non si dovrebbe mai violare e quindi viene codificata. Il problema è un altro, ed è che non si può chiedere ai cittadini un comportamento eticamente più corretto di quello che dimostrano di avere i propri governanti: non lo dico io ma il sociologo Ralf Dahrendorf.»
 
C'è uguaglianza in Italia?
«La nostra Costituzione, dal punto di vista formale, è all'avanguardia nel mondo perché afferma dei principi universali. La Costituzione materiale è un' altra: quella dei fatti concreti. Ci sono due pesi e due misure nella giustizia, nel lavoro, nella sanità, nell'assistenza, nella solidarietà. C’è chi può e chi non può, chi ha un santo in paradiso o i mezzi economici per ottenere i suoi diritti, e chi no. È questa la ragione per cui mi sono messo in politica: cercare di fare in modo che vi sia un livellamento al rialzo e non al ribasso.»
 
E i giovani?
«I giovani in questo momento stanno traendo un cattivo esempio tra un condono, un indulto, un delitto che resta impunito. Il messaggio che si passa ai giovani è un altro: il delitto paga. E questo comporta che molti meno giovani rispettino le regole.»