È originaria di Coriano, sulle colline riminesi. Classe ‘56, incontra la Comunità Papa Giovanni XXIII ad appena 17 anni, si consacra nel 1982 e parte per lo Zambia nel 1988 dove farà il medico missionario per 20 anni, offrendo il suo aiuto soprattutto ai malati di Aids delle baraccopoli.
Fino a quando, nel 2009 compie un volo in direzione sud-nord che la porta in poche ore a vivere un cambiamento di prospettiva incredibile: dalle capanne dei compound dove curava i malati di aids è passata agli uffici e alle sale conferenze della sede ONU di Ginevra, per rappresentare la Comunità Papa Giovanni XXIII che nel 2006, si era accreditata presso l’ECOSOC, il Consiglio economico e sociale. Abita a Prevessin-Moens, un paesino sul confine Franco-svizzero che dista solo 15 minuti da Ginevra.
Tanti i riconoscimenti ottenuti in questi anni. Donna dell’anno a Ndola, attualmente è coordinatrice di tutte le ONG cattoliche presenti a Ginevra
Foto di Riccardo Ghinelli
«Avevo 17 anni, ero molto timida, ero la figlia del dottore del paese, e questo un po’ mi condizionava. Frequentavo il liceo classico, un po’ la parrocchia, ma cercavo qualcosa di più, una vita di fede più radicale. Ricordo che nel mio diario ho scritto: “Per un discepolo di Cristo non fare il male è bene, non fare il bene è male”.»
«Nel 1973 si è aperta la prima casa famiglia della Comunità a Coriano, il mio paese. Era una cosa nuova, difficile da accettare, in paese la definivano la casa dei matti. Mio padre come medico ogni tanto era chiamato a intervenire, alcuni accolti erano suoi pazienti. Volevo andare a vedere e l’ho proposto alle mie amiche, ma loro non si decidevano. Allora un giorno ho preso il motorino e sono andata. Appena arrivata ho visto Marino, Sergio e Guido, tra i primi accolti, che mi guardavano dal balcone con un sorriso a 360 gradi. In loro ho percepito che Dio mi amava e mi stava aspettando.»
«Ho continuato a stare con i miei e a studiare ma nel frattempo frequentavo la casa famiglia. Lo stesso anno ho partecipato a un campo di condivisione a Canazei con i ragazzi disabili. Di fatto ero entrata nella vita di comunità che allora era agli inizi. Il mio primo incarico è stato come responsabile di Commissione Giustizia, il gruppo che cercava di individuare e rimuovere le cause dell’emarginazione.»
«Ero nella cappellina della casa Madonna delle Vette a Canazei, voluta negli anni ’50 da don Oreste per far fare agli adolescenti un incontro simpatico con Cristo. Cercavo luce sul mio futuro. Da un lato volevo andare subito a vivere a tempo pieno nella casa famiglia, dall’altro sentivo anche la chiamata a fare il medico. Ho aperto a caso la Bibbia e lo sguardo mi è andato su una frase: “Curate i malati, mondate i lebbrosi”. Ne ho parlato con don Nevio Faitanini, uno dei sacerdoti che collaborava con don Oreste, mio direttore spirituale. Lui vide in questo una chiamata di Dio. Così mi iscrissi a Medicina».
«È avvenuta in modo analogo. Sempre aprendo la Bibbia a caso, nella stessa cappellina, ho trovato la frase: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze”. Mi chiedevo, ma cosa mi vuol dire il Signore, che devo diventare suora? Invece era un primo segno di quello che poi è avvenuto, quando il carisma è stato riconosciuto dalla Chiesa ed è stata data la possibilità di dare i voti come laici all’interno della Comunità. Una scelta confermata da don Oreste che mi ha anche proposto di andare a vivere nella casa famiglia di Coriano, assieme a Ida, la responsabile, che nel frattempo era rimasta sola.»
«Ero amica di lei e Guido, il fidanzato. Io avevo qualche anno in più di Sandra, lei guardava a me come una che aveva fatto una scelta radicale. Io vedevo in lei una ragazza innamorata di Dio. Come me studiava Medicina e avrebbe voluto poi andare in missione, ne parlavamo spesso. Aveva un sorriso luminoso e uno sguardo particolare, come se fosse presente ma anche altrove. Era anche dotata di una grande ironia. Poi non potrò mai dimenticare il momento in cui l’ho soccorsa quando è stata travolta dall’auto.»
«Mio padre era impegnato in politica, forse ho preso da lui. Però la vera la spinta è venuta dall’incontro con i poveri. Ricordo ancora quando il vescovo Locatelli, in vista del riconoscimento della nuova associazione, ci chiese di scrivere lo “Schema di vita” che ci caratterizzava. Oltre alla scelta di condividere la vita degli ultimi c’è anche quella di rimuovere le cause dell’emarginazione ed essere voce di chi non ha voce per costruire un mondo più giusto.»
«Appena laureata dovevo partire per la missione in Zambia, ma sono stata indicata come responsabile di zona a Rimini. Ho chiesto a don Oreste cosa dovevo fare. Lui mi ha confermato di accettare, posticipando di 3 anni la partenza per lo Zambia chiedendomi l’obbedienza! Così ho svolto questo ruolo dal 1983 al 1987.»
«Prima sono stata un periodo a Londra a perfezionare l’inglese e specializzarmi in malattie infettive, poi sono partita per lo Zambia dove sono stata 20 anni, curando malati di aids, persone con disabilità e ragazzi di strada.»
«Sì, per quattro mandati, tra il 1997 e il 2009.»
«Nel 2006 siamo stati accreditati come associazione all’Ecosoc di Ginevra. C’era una equipe che si occupava di preparare gli interventi. Nel 2007 io e Gloria Gozza, tuttora missionaria in Zambia, siamo state a New York per partecipare ad un’assemblea dell’ONU sul tema dei diritti delle donne. Dopo questa esperienza abbiamo proposto alla Comunità di aprire una presenza stabile presso l’ONU, per poter incidere in maniera più significativa. Così la Comunità ha mandato me. È stato difficile come passaggio, perché pensavo di vivere per sempre in missione, ma era una chiamata di Dio e ho accettato.»
«I primi tre anni sì, poi si è creato un bel gruppo. Alcuni in presenza, altri a distanza.»
«È stato un passo grosso per la Comunità. Prima, pur essendo presenti in altri Stati, non avevamo di fatto una dimensione internazionale per quanto riguarda l’azione per essere voce di chi non ha voce e rimuovere le cause dell’emarginazione. Ora qui siamo riconosciuti e stimati, sentono che siamo veramente dalla parte dei poveri. Diamo continuamente contributi. Non siamo dei teorici, le proposte arrivano direttamente da chi è in prima linea nei vari Paesi del mondo in cui siamo presenti. Abbiamo inciso sulle risoluzioni, sui rapporti, introducendo anche nuovi concetti come la solidarietà preventiva e reattiva. Un concetto molto caro a don Oreste.»
«Qui si sperimenta davvero la cultura del chicco di grano che vien messo nel terreno e porterà frutto in futuro. Da medico i risultati li vedevo subito, qui magari li vedranno altri. Una bella palestra per rimanere agganciati a Gesù.»
«Anzitutto con la vita di preghiera. Cerco di rimanere nella cella interiore e da lì mi sento unita comunque con i poveri attraverso i fratelli e le sorelle di Comunità che stanno con loro. Poi cerco di coltivare le relazioni umane, che qui sono con persone di diverse culture e orientamenti.»
«Mi ha dato tutto. Ogni volta che sento un fratello o una sorella che raccontano come condividono la vita con i poveri io mi commuovo. È la scoperta continua di come il Signore opera pur con i nostri limiti. Io sono entrata in comunità ancora adolescente, sono passata dalle bambole ai campi di condivisione. È la mia vita.»
«C'è bisogno davvero di un nuovo ordine mondiale e non mi sorprende che la Cina, India e Russia che fanno parte dei BRICS, le cosiddette economie emergenti, abbiano fatto una tale conferenza. Credo che fra qualche decennio la scena politica ed economica mondiale cambierà sicuramente, ma si vedrà...»
«La Comunità deve rimanere fedele alla sua vocazione e alla profezia di don Oreste sulla Società del gratuito e spingere l'acceleratore su questo con la forza della testimonianza e l'azione politica di rimozione delle cause dell'ingiustizia, difendendo il principio della dignità umana che purtroppo si sta perdendo. Le sfide sono tante, le guerre, i cambiamenti climatici, l'intelligenza artificiale, la crisi della cooperazione internazionale e del multilateralismo, per citarne alcune.»