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27 Settembre 2022
Ultima modifica: 27 Settembre 2022 ore 10:21

Intervista a Mons. Giorgio Lingua, Nunzio apostolico in Croazia

È stato tra i più giovani diplomatici della Santa Sede. Grazie all'amicizia e la stima che lo legano a Paolo Ramonda fin dai tempi delle scuole medie, ha voluto la Comunità Papa Giovanni XXIII a Bagdad e a Cuba.
Intervista a Mons. Giorgio Lingua, Nunzio apostolico in Croazia
Entrato sin da giovane nel corpo diplomatico della Santa sede, è stato Nunzio apostolico in Paesi difficili, segnati da guerra e ideologie. Da Bagdad si porta a casa domande senza risposta. Ma dice: «La sfida è fidarsi di Dio ogni istante e dargli sempre tutto».
Quando lo contattiamo per ottenere un’intervista, non nasconde i suoi numerosi impegni, ma aggiunge: «Se l’ha chiesto Paolo Ramonda, non posso dire di no».

Mons. Giorgio Lingua e l'amicizia con la Comunità Papa Giovanni XXIII

Nato nel 1960 a Fossano, il Nunzio apostolico Giorgio Lingua è coetaneo e amico del responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII fin dai tempi della scuola media. Poi le loro strade hanno preso direzioni diverse, ma è rimasta la stima reciproca, che ha portato a nuove convergenze nel corso degli ultimi anni, quando Lingua si è trovato a rappresentare la Santa Sede in luoghi davvero difficili, ed ha visto in una comunità che annuncia il Vangelo attraverso la condivisione con i poveri la strada migliore da percorrere.
Divenuto sacerdote nel 1984, entra a far parte fin dal 1992 del servizio diplomatico della Santa Sede, operando in Costa d'Avorio, negli Stati Uniti d'America, nella Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, nelle nunziature apostoliche in Italia e in Serbia.
Nel 2010 diventa vescovo e nunzio apostolico in Giordania e Iraq. Poi nunzio a Cuba ed infine in Croazia.

L’intervista diventa così un viaggio alla scoperta di luoghi molto diversi tra loro, visti con gli occhi e il cuore di un uomo che ha un compito davvero peculiare: rendere presente e vicino a persone così fisicamente lontane il successore di Pietro.
Ma partiamo da quando tutto è iniziato.


Chi è Mons. Giorgio Lingua?

Mons. Lingua, a 24 anni lei era già sacerdote. Quando ha capito che quella sarebbe stata la sua strada?

«Fin da bambino ho sentito un rapporto speciale con Dio, che ho sempre interpretato come “chiamata al sacerdozio”. Non potevo sapere, ovviamente, cosa volesse dire, ma percepivo che Dio era la cosa più importante della vita. Senza dubbio anche per il bell’esempio che mi davano i genitori ed i preti che avevo conosciuto.»

C’è un fatto particolare che ha determinato la scelta?

«A 22 anni ho avuto un grave incidente stradale, proprio mentre riflettevo, ormai adulto, sulla scelta che stavo per fare. Quando il cardinal Severino Poletto, allora vescovo di Fossano, la mia diocesi, al quale avevo confidato i miei dubbi, venne a trovarmi all’ospedale, appena si rese conto che sarei potuto partire all’improvviso per il paradiso, mi disse: “Giorgio, questo è un segno che Dio ti vuole prete”. Io gli risposi, con un po’ di insolenza: “Per me è un segno che mi vuole vivo!”. Ma, in fondo al cuore, sentivo che aveva ragione lui.»

Dalla vocazione sacerdotale al ruolo di diplomatico nella Chiesa. Come c’è arrivato?

«Di nuovo per via del vescovo Poletto. Aveva ricevuto dal Vaticano la richiesta di un prete. Mi disse che era la terza volta che succedeva e non osava rispondere sempre di no. Gli dissi che non avevo nulla in contrario. Fu così che partii per la Pontificia Accademia Ecclesiastica dove si preparano i futuri diplomatici del Vaticano.»

Il Nunzio è l'ambasciatore del Papa

Cosa significa essere Nunzio apostolico?

«Il Nunzio non è altro che il rappresentante del Santo Padre in un determinato Paese. Possiamo dire, per intenderci, l’Ambasciatore del Papa.»

E per lei che significato ha questo compito?

«È prima di tutto un impegno ad essere fedele al vescovo di Roma, chiunque sia, cercando di conoscere il suo pensiero per poterlo trasmettere nel modo più fedele possibile. A me piace vedere la funzione del Nunzio come quella di un ponte a doppio senso di circolazione: che collega Roma con le Chiese sparse nel mondo e i Governi presso i quali è inviato, ma anche che porta a Roma il punto di vista della periferia. In fondo, il Nunzio è un po’ il Papa “in uscita”, verso il mondo, che fa sentire alla gente la vicinanza del Sommo Pontefice.»

Lei si è trovato a svolgere il suo primo incarico come Nunzio apostolico Giordania e in Iraq dal 2010 al 2015. Un periodo complicato, fino all’arrivo dell’Isis che ha portato all’esodo di numerosi cristiani iracheni. Come ha fronteggiato questa situazione?

«È stato un momento terribile. Da una parte sentivo il desiderio di fare qualcosa, dall’altra mi sentivo impotente. Ecco, il senso di impotenza è proprio quanto più mi porto dietro di quell’esperienza. Ma ricordo volentieri anche la solidarietà, spontanea ed organizzata, di chi non sta con le mani in mano e si dà da fare per aiutare chi soffre. Per due volte ho fatto il giro dei campi profughi nel Kurdistan iracheno e ad Amman, in Giordania. Pensavo di portare qualcosa, qualche aiuto che arrivava in Nunziatura, qualche parola di conforto, ma sempre ho ricevuto molto di più di quanto potevo dare. La carità è contagiosa!»

Cosa le ha lasciato quell’esperienza?

«Tante domande. Ad esempio: possibile che nessuno avesse previsto l’arrivo dell’Isis? Come mai erano così equipaggiati ed attrezzati? Dove hanno trovato tutte quelle armi? Se pensi quanto è difficile far arrivare le medicine a causa dell’embargo e poi vedi che le armi circolano senza problemi, qualche domanda nasce. Oggi pretendiamo di sapere da dove arriva la mela che abbiamo sulle nostre tavole, se dal Cile o dal Trentino, vogliamo essere sicuri se un prodotto è Made in China o nell’UE. A quelle domande, invece, nessuno vuole rispondere: c’è tanta ipocrisia.»

Com’è percepita la presenza della Chiesa in Iraq e in Giordania?

«La Chiesa è spesso considerata una mano tesa verso i poveri ed una istituzione credibile nel campo dell’educazione. La Caritas, ho visto in Iraq, ma ancor più in Giordania, si guadagna la stima di tutti perché non fa discriminazione. Aiuta chi può, senza guardare il passaporto, il colore della pelle o la fede religiosa. La Chiesa, poi, è segno di tolleranza. Oltre il 90% degli iscritti alle scuole cristiane in Iraq e Giordania sono musulmani. Chi perseguita i cristiani sono piccole frange di estremisti, senza cultura e senza il senso del bene comune. La grande maggioranza della gente riconosce il ruolo della Chiesa nella società e apprezza il suo contributo.»

Cambiamo scenario spostandoci a Cuba, dove lei è stato Nunzio dal 2015 al 2019. Come si inserisce la Chiesa in un contesto socialista?

«Direi che a Cuba la Chiesa è rispettata, considerata un punto di riferimento nella società. Forse, in un certo senso, è anche temuta, perché è libera di dire la verità. E la verità, a volte, può far male. Seppure in modo discreto, nonostante vari ostacoli che ha dovuto incontrare, si è ritagliata uno spazio significativo nel campo della carità e della formazione delle coscienze. Personalmente, per quanto potevo, ho sempre cercato di promuovere una maggior collaborazione con le autorità civili, anche sull’esempio di Papa Francesco, perché sono convinto che tanti problemi nascono da pregiudizi, a volte senza dubbio giustificati per quanto si è vissuto, ma che occorre superare. Penso che sia meglio essere ingannati dando fiducia, piuttosto che paralizzare i rapporti per via di radicati sospetti.»

Sia in Iraq che a Cuba c'è bisogno di chi sceglie di condividere la vita degli ultimi senza la pretesa di insegnare.
Mons. Giorgio Lingua

Dal 2019 è Nunzio apostolico in Croazia. Cosa ha trovato questa volta?

«Ho incontrato un Paese con una solida tradizione cattolica, che ha nella fedeltà a Roma un punto di forza e un vanto. Molti martiri, a cominciare dal Beato Stepinac, arcivescovo di Zagabria, condannato al carcere in seguito a processo sommario dalle autorità comuniste dell’ex-Jugoslavia, hanno dato la vita proprio per non rompere la comunione con il Successore di Pietro. Ora il Paese si trova alle prese con le sfide della modernità, attratto dalle sirene europee, da una parte, e timoroso di essere fagocitato nella propria identità, dall’altra.»

La Croazia è una delle tappe della rotta balcanica dei migranti. Rispetto a questo dramma, e ora anche alla guerra Russia-Ucraina, vede una via d’uscita?

«Per me la via d’uscita è soltanto il coraggio evangelico del fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. Si è vista una ammirevole accoglienza nei confronti dei migranti provenienti dall’Ucraina, ma la stessa attenzione la si dovrebbe avere nei confronti di tutti i migranti, almeno di quelli che riempiono le condizioni previste dagli accordi internazionali. Non possiamo discriminare fra i bisognosi.»

Il Nunzio con la Comunità Papa Giovanni XXIII

Cos’è che la lega alla Comunità Papa Giovanni XXIII?

«Prima di tutto le persone che ho incontrato. L’amicizia, e la stima, che ho per Paolo Ramonda che conosco dai tempi delle scuole medie, per Giusy Sacchetto, Marcella Sanino… insomma, i primi che hanno abbracciato la proposta di vita di don Oreste nella mia Diocesi. Sono loro e la loro radicalità di vita che mi hanno affascinato.»

Grazie a lei la Papa Giovanni è approdata a Bagdad e a Cuba. Perché questa scelta?

«Proprio per quella stima e quel fascino che ho avuto fin dall’inizio in chi decideva di seguire Gesù povero e servo. Ho visto che sia in Iraq che a Cuba c’è bisogno, nonostante evidenti difficoltà, di chi sceglie di condividere la propria vita con gli ultimi senza la pretesa di insegnare, predicando prima di tutto con la testimonianza della vita.»

Nella sua vita come le parla Dio? E dove lo incontra?

«Nei modi più diversi e sorprendenti. Mi piace ricordare un aneddoto. Un giorno ero piuttosto giù. Ad un certo punto, mentre guidavo la macchina vedo su un muro una grande scritta: “Giorgio ti amo!”. Era senza dubbio la dichiarazione di una ragazza innamorata, ma per me era un messaggio che veniva dall’Alto: “Sta’ tranquillo, Giorgio, ti amo!”. Segni della tenerezza di Dio come questo ne avrei tanti da raccontare. Dio ci parla in tanti modi.»

Lei, pur ricoprendo un ruolo molto importante, è apprezzato perché sta in mezzo alla gente, è cordiale e semplice. Sembra proprio che come pastore abbia quell’odore delle pecore tanto auspicato da Papa Francesco.  Si riconosce in questo profilo?

«In parte sì, ma non so se quell’odore è abbastanza forte.»

Quali sono le nuove sfide che dovrà ad affrontare?

«Non lo so. Ad ogni giorno basta il suo affanno! Ecco, la sfida del momento presente è la più impegnativa: fidarsi di Dio ogni istante e dargli sempre tutto.»

In questo mondo in bilico tra cambiamenti climatici, emergenze umanitarie, il rischio di una guerra nucleare, in che cosa ci resta da sperare?

«Nella risurrezione di Cristo: “Non abbiate paura, io ho vinto il mondo”. »

Un richiamo a chi crede?

«Chi crede veramente non ha bisogno di alcun richiamo. A chi crede soltanto un po’, o è tiepido, dico: coraggio, diamoci la mano, siamo già in due!»