«In realtà – ci anticipa – quando si parla di carcere, oltre ai 60 mila riportati nel sito del Ministero della Giustizia, dobbiamo considerare anche molti altri, circa 50 mila, che scontano le pene alternative».
«Sì, questo dato è confortante. Va detto però che molte persone con condanne inferiori ai 4 anni potrebbero in teoria beneficiare di queste misure, ma nei fatti restano in carcere perché non hanno un posto dove andare, una casa, un lavoro, degli affetti. Si crea così una giustizia differenziata, anzi, una ingiustizia che penalizza proprio chi ha meno risorse e quindi avrebbe più bisogno di aiuto.»
«È una festa mancata. Proprio perché da fuori arrivano immagini di luci, di festa, regna la tristezza, un clima di pesantezza, solitudine. D’altra parte la pena detentiva consiste proprio nell’isolamento, nel taglio degli affetti, e questo a Natale si fa sentire in modo particolare. C’è anche un senso di fallimento, di vergogna.»
«No, è un tempo come tutti gli altri. Chi va già in permesso premio può andare, ma gli altri, chi non ha una casa, degli affetti, si rende ancora più conto di essere solo, e questo può anche sfociare in rabbia.»
«Sì, il loro è un ruolo molto importante. Chi frequenta il carcere sa che questo è un periodo duro: le attività sono sospese, così pure la scuola, molti educatori vanno in ferie, chi resta dentro vive una sorta di lutto. Allora i volontari, sia laici che sacerdoti, cercano di essere più presenti. In varie carceri, anche da noi a Rimini, il vescovo stesso va a celebrare la messa per far sentire la presenza della comunità cristiana. Sono piccoli segni ma molto importanti. »
«Tiriamo furi da queste persone i pregi e creiamo le condizioni perché emerga il meglio di sé, ma anche le ferite, le fragilità, gli errori. Li aiutiamo a diventare umili per rileggere la propria storia con una maggiore consapevolezza. Le CEC sono anzitutto luoghi di misericordia. I limiti li vediamo, non solo quelli dei recuperandi ma anche i nostri, però non ci fermiamo al limite ma lo portiamo avanti assieme. Le cose brutte ci sono ma andiamo oltre e piano piano si passa dal bisogno al sogno, e ci si apre all’infinito.»
«Nelle CEC la formazione umana e quella spirituale si completano. Per andare oltre il limite cerchiamo di favorire l’incontro con l’assoluto.»
«Non tutti credenti e non tutti cattolici, abbiamo anche diversi musulmani. Viviamo una esperienza di preghiera interreligiosa molto intensa, che ha al centro i tanti nomi di Dio: i musulmani ne hanno 99, tra i quali non c’è “padre” che invece caratterizza noi cristiani. In questa preghiera si crea una unità profonda tra persone che vengono da esperienze violente, di abbandono, uccisioni. L’incontro con l’assoluto fa andare oltre la ferita subita o inferta. Preghiamo molto per la pace, ed è bello che delinquenti cristiani e musulmani preghino insieme per la pace.»
«Dieci, distribuite tra Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Molise e una in Camerun.»
«Purtroppo no, e non riceviamo alcun contributo. Ma il riconoscimento è necessario anche perché si certifichi l’efficacia di un metodo: nelle CEC la recidiva è del 12-15%, rispetto a 75% del carcere. Con la ministra Cartabia ci eravamo andati vicino, ma poi ogni volta che cambia un governo si deve ricominciare daccapo. Sono vent’anni che è nata la prima Casa Madre del Perdono, e siamo ancora qui a chiedere un riconoscimento che non arriva.»
«Non posso negare che anche qui è un momento di tristezza, perché comunque si vive la solitudine. Però in maniera diversa, si tratta comunque di una struttura aperta. Per chi ha famigliari, proponiamo di invitarli. Per chi non ha nessuno, cerchiamo di alleviare la solitudine con la presenza dei volontari.»
«Sì, se ci sono le condizioni per elaborarla. Altrimenti può portare rabbia e negatività, che poi farà diventare ancora più cattivi: questo è il motivo per cui il carcere così com’è non funziona. In un convegno organizzato molti anni fa dalla nostra Comunità lo psichiatra Vittorino Andreoli ha sostenuto che “il carcere è una costosa inutilità”, perché chi ha sbagliato, invece di elaborare la colpa, si sente vittima di un sistema. Allora tutto è vanificato. Per questo le comunità solo la vera soluzione.»
«Non solo alternativa ma educativa. Noi non siamo favorevoli a mandare i detenuti a casa e al lavoro come se niente fosse: servono pene educative per ottenere un vero cambiamento. E questo ce lo chiede anche l’opinione pubblica, perché per chi ha sbagliato deve espiare.»
«Mi vengono in mente due fratelli, Yurjen ed Ezio, italiani (nonostante il nome), accolti in tempi diversi. Non si parlavano da anni, uno inoltre non parlava più con la madre. Abbiamo fatto un percorso, un’opera di mediazione familiare, uno in una casa e l’altro in un’altra, fino al ricongiungimento proprio nel giorno di Natale. Ho visto la felicità negli occhi della madre.
Un’altra storia bella è quella di Gustavo, carcerato per maltrattamenti in famiglia. Un lungo cammino di consapevolezza e cambiamento, durante il quale in occasione del Natale la moglie e figli sono venuti a trascorrerlo con noi. Dopo cinque anni siamo arrivati al rientro in famiglia. Dalla denuncia alla riaccoglienza, ma dopo un vero cambiamento.
La sacra famiglia la troviamo anche in queste piccole resurrezioni.»