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30 Novembre 2021
Ultima modifica: 30 Novembre 2021 ore 12:38

In Veneto l'acqua che uccide

Le istituzioni europee: l'inquinamento da PFAS viola i diritti umani?
In Veneto l'acqua che uccide
Foto di Michela Zamboni
Una delegazione dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani visiterà nei prossimi giorni i luoghi e la popolazione colpita dalla contaminazione di PFAS in Veneto, incontrando anche le istituzioni. Lo scopo della missione è verificare la violazione di diritti umani descritti nella Convenzione Europea. Tra questi, il diritto alla vita. Ma cosa sta accadendo in Veneto di tanto grave da far muovere un’organizzazione così importante? Il racconto e le valutazioni di una esponente delle "mamme No PFAS".
Nel 1965, a Trissino, in provincia di Vicenza, una ditta chiamata RiMar e poi diventuta Miteni SpA, si installò in un’area molto ricca di acqua di cui necessitava per le sue produzioni. Nei decenni suguenti poté sversare nel vicino torrente e nel depuratore consortile quantità enormi di sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) senza che nessun ente, che pure aveva autorizzato la ditta a produrre, controllasse la loro dispersione nell’ambiente e nella falda a valle: la seconda riserva d’acqua sotterranea più grande d’Europa, da cui emungono gli acquedotti.
Ecco perché la popolazione di un territorio vastissimo, compreso tra le provincie di Vicenza, Padova e Verona, è vittima della più grave contaminazione da PFAS al mondo con almeno 350mila persone colpite, destinate a diventare 800mila con l’espandersi dell’inquinamento attraverso le falde acquifere e le acque superficiali.

L'inquinamento da PFAS contrasta con il diritto alla vita

«Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita.» (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 2.1.)

L’inquinamento consapevole dell’ambiente da parte di MIteni durante la produzione e l’utilizzo di PFAS, la mancanza di una corretta informazione e della tutela della popolazione da parte degli enti preposti, hanno privato negli anni migliaia di persone del diritto alla vita.

Le sostanze perfluoroalchiliche che Miteni produceva (ha dichiarato fallimento a fine 2018), caratterizzate dal legame fluoro-carbonio che le rende particolarmente resistenti al calore oltre che idro e oleorepellenti, si accumulano negli esseri viventi, sono persistenti, tossiche e interferiscono con il sistema endocrino.
Sono associate ad un aumento di rischio di aborti spontanei durante le prime settimane di gravidanza: ingannando i recettori del progesterone; interferiscono sulla preparazione dell’endometrio ad accogliere l’ovulo fecondato che, non trovando un ambiente adatto, non riesce a svilupparsi.
I PFAS interferiscono anche su un altro ormone, il testosterone, diminuendo la qualità dello sperma e riducendo di conseguenza la capacità riproduttiva dell’uomo.

In una vastissima area del Veneto, migliaia di persone hanno bevuto per decenni acqua contaminata da enormi quantità di PFAS che usciva direttamente dal rubinetto di casa. 
L’acqua di queste zone è sempre stata definita potabile: che può quindi essere bevuta o destinata a usi alimentari. Infatti la Regione Veneto ha fatto installare negli acquedotti più contaminati un sistema di filtri a carboni attivi derivanti da fibra di noce di cocco che riescono a bloccare i PFAS e mantenerli al di sotto del limite quantificabile in laboratorio (<5 ng/l per ciascuna sostanza ricercata: 14 a fronte di oltre 7.000 esistenti). Tutto questo, però, solo dopo aver scoperto la presenza di PFAS nell’acqua nel 2013, grazie allo “Studio di valutazione del rischio ambientale e sanitario associato alla contaminazione da sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS) nel Bacino del Po e nei principali bacini fluviali italiani”, avviato due anni prima dall’IRSA-CNR  nell’ambito di una convenzione con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.

Prima di allora, Arpav, l’Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto, non aveva mai verificato la presenza di queste sostanze nell’ambiente perché non esistono ancora in Italia limiti di legge che regolamentino i PFAS.
Una normativa a livello nazionale per queste sostanze è uno degli obiettivi che il gruppo di cittadini attivi Mamme No PFAS, insieme ad altre associazioni, stava cercando di raggiungere con enorme fatica in un confronto con potenti multinazionali al tavolo tecnico del Ministero dell’Ambiente che, con il passaggio a Ministero della Transizione Ecologica, sembra essere stato accantonato nella soffitta delle priorità.
Quanti bambini non sono mai nati per la contaminazione subita dalle loro mamme?
Quante coppie non sono riuscite ad avere figli e quanti giovani coppie non saranno in grado di procreare perché il loro sistema endocrino non funziona correttamente?
Con altre dolorose domande si potrebbe continuare pensando a tutti coloro che la vita l’hanno persa troppo presto per problemi cardiovascolari, diabete, tumori, tutti correlabili all’esposizione a PFAS.
La grande manifestazione a Lonigo
8 ottobre 2017. Oltre 10mila persone si riuniscono a Lonigo (VI), fulcro della contaminazione da PFAS in Veneto e punto di captazione degli acquedotti. Chiedono acqua pulita.

Gli ex manager di Miteni sapevano di inquinare?

In seguito a numerosi esposti di cittadini, associazioni e istituzioni, il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri di Treviso – su incarico della Procura della Repubblica di Vicenza – ha raccolto vari elementi di prova (oltre 9.000 pagine) che, se confermati nel corso del processo, dimostrerebbero come la Miteni e le due società proprietarie, Mitsubishi e ICIg, fossero da tempo consapevoli dell’inquinamento.
Proprio in questi giorni, presso il Tribunale di Vicenza, è iniziata la fase dibattimentale del processo a carico degli ex manager di Miteni che dovranno rispondere di disastro innominato e avvelenamento delle acque, inquinamento ambientale e bancarotta fraudolenta. La buona notizia, per ora, è che Mitsubishi e ICIG, in caso di condanna, saranno tenute a risarcire di danni.

Documenti risalenti al 1990 mostrano come Miteni dichiarasse di immettere in atmosfera 15 kg/h di composti perfluorurati (Regione del Veneto, Commissione tecnica regionale Sezione ambiente, LR 16.4.85, n. 33 Parere, n. 796 del 12.04.1990). Mentre in fognatura, nel 2013, venivano conferiti da Miteni oltre 5 milioni di ng/l di PFAS (Rapporto di prova n. 310954 di ARPAV, rev. 0). Nel 2017 furono rinvenuti diversi metri cubi di rifiuti altamente contaminati sepolti sotto l’argine del torrente Poscola, adiacente alla proprietà.

Nell’udienza del 25 novembre scorso, il ricercatore del CNR, Stefano Polesello, ha spiegato che Miteni sapeva di inquinare e ha taciuto. Nel 2011, infatti, egli aveva eseguito dei prelievi di campioni di acqua nei pozzi di Miteni che vennero poi congelati. Nel 2021 questi campioni sono stati analizzati con tecniche più sofisticate ora disponibili e si è scoperto che il C6O4, una sostanza prodotta per sostituire il PFOA utilizzato anche per le padelle antiaderenti, era già presente in falda diversi anni prima che Miteni ne dichiarasse agli enti la produzione.

Un fenomeno sottostimato 

Nonostante le produzioni di Miteni fossero note e autorizzate da anni, e nonostante gli studi sulla contaminazione della falda fossero stati inviati alle istituzioni (studio IRSEV del 1979 inviato alla Regione, progetto Giada del 2005 e del 2010 inviati ad Arpav e Provincia di Vicenza), fino al 2013 nessun ente pubblico e nessun gestore degli acquedotti si era mai preoccupato di procurare gli standard analitici per la ricerca di PFAS nell’ambiente.

La comunicazione nei confronti della popolazione è sempre stata rassicurante, il problema è stato sottostimato e tutti coloro che provavano a dire il contrario venivano accusati di allarmismo.
A nessuna mamma in gravidanza è mai stato sconsigliato di bere l’acqua del rubinetto. Gli stessi gestori degli acquedotti, pur erogando un servizio di vitale importanza, hanno dichiarato  di non aver mai sentito parlare di PFAS prima del 2013, nonostante fossero presenti nell’acqua che prelevavano e erogavano alla popolazione

Le mamme No PFAS del Veneto: «Nessuna tutela»

Nel 2017 la Regione Veneto avviò un piano di sorveglianza sulla popolazione residente nella cosiddetta “area rossa”, quella contaminata da PFAS attraverso l’acqua di falda e degli acquedotti. Purtroppo i primi esiti dimostrano come siano già presenti, anche nelle giovanissime ragazze e ragazzi, problemi di ipercolesterolemia, ipotiroidismo, funzionamento dei reni, alterazioni epatiche, tumori ai testicoli e molte altre patologie.
Nello stesso periodo iniziò anche il Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze Perfluoroalchiliche avviato sempre dalla Regione Veneto: oltre mille campioni di matrici alimentare di origine animale e vegetale furono prelevati nei comuni dell’”area rossa” tra le province di Vicenza, Padova e Verona e analizzati.
Bimba e acqua
Foto di ©Beznika

La Regione ha reso pubblici i risultati ma solo per due sostanze, PFOA e PFOS, fornendoli solo in forma aggregata e senza indicare il luogo in cui i campioni furono prelevati: impossibile quindi per la popolazione capire se i cibi prodotti nel proprio territorio e consumati quotidianamente contenessero anche le altre 10 molecole ricercate e soprattutto quali fossero quelli da evitare.

Mamme No PFAS e Greenpeace hanno dovuto ricorrere al Garante per la Difesa dei Diritti della persona e Difesa civica della Regione e poi al TAR del Veneto per ottenere, con una sentenza dell’8 aprile 2021, le analisi dei singoli campioni e la loro geolocalizzazione. Purtroppo - si legge nel sito mammenopfas.org - non tutti i dati sono stati forniti e le due associazioni hanno potuto constatare come molte matrici tipiche di queste zone non siano state campionate e come i prelievi non siano stati eseguiti in maniera uniforme per poter disegnare una reale situazione della contaminazione alimentare.
Nel testo condiviso da Mamme No PFAS e Greenpeace si denuncia quindi «il potenziale rischio per l’intera comunità nazionale (ed anche straniera) derivante dal consumo di tutti quei prodotti provenienti dall’area contaminata da PFAS. Un rischio che l’operato delle istituzioni ha finora (per quanto noto) del tutto ignorato» e si chiede «che si avvii al più presto un nuovo monitoraggio sugli alimenti coltivati in area rossa e arancione e, partendo dai dati del 2017, si intraprendano fin da subito tutte quelle misure volte a ridurre i rischi sanitari.»

I cittadini promuovono la trasparenza

«Solo ad ascoltare le persone interessate, specialmente genitori, vengono i brividi. Si resta sconvolti». Sono le parole contenute in una lettera del Vescovo di Verona, mons. Giuseppe Zenti, pubblicata dal quotidiano veronese L’Arena dopo l’incontro con una delegazione di Mamme No PFAS che, insieme a Greenpeace, hanno messo a disposizione della comunità scientifica i dati ottenuti dalla Regione dopo il ricorso al TAR
Dalla collaborazione con il prof. Annibale Biggeri (nota: Unità di biostatistica epidemiologia e sanità pubblica, Dipartimento di scienze cardiotoracovascolari e sanità pubblica, Università degli studi di Padova e Dipartimento di statistica, informatica, applicazioni “G. Parenti”, Università di Firene) e nato lo studio Sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) negli alimenti dell’area rossa del Veneto (aggiungere link): un esempio di come i cittadini, che in questo caso hanno subito l’inquinamento, possono partecipare attivamente nella costruzione dei dati, nella definizione dei quesiti di ricerca e nell’interpretazione dei risultati, rendendo trasparenti le informazioni nell’interesse di tutta la comunità. Un esempio di come tutti noi possiamo e siamo chiamati a contribuire affinché le mancanze e inerzie delle istituzioni vengano superate e si possa promuovere un cambiamento verso una reale prevenzione e tutela dell’ambiente che, come conclude il vescovo Zenti, «è patrimonio di tutta l’umanità e non possesso privato di pochi avvoltoi».