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6 Luglio 2019

Chi è la Iena Pif

Attore, regista e anche scrittore. Il suo primo romanzo, come i suoi film, è ambientato in Sicilia, terra da cui proviene. Stavolta però il tema non è la mafia ma una storia di amore, di dolci e di fede, che pone un interrogativo: cosa succederebbe se applicassimo davvero il Vangelo?
Chi è la Iena Pif
Foto di Adolfo Frediani
«Lei mi vuole cattolico praticante. Bene, allora praticherò ogni santo giorno la parola del Signore e seguirò gli insegnamenti dei cinque evangelisti!» Ed evidenziai le prime tre settimane. Solo dopo mi ricordai che gli evangelisti erano quattro.

Ne ha fatto di strada da quando mieteva vittime con le sue imbarazzanti “interviste interrotte” per Le Iene (2001 - 2011) o girava per Mtv Il Testimone con una telecamera amatoriale (2007).
Lui è Pierfrancesco Diliberto, palermitano, classe 1972, meglio conosciuto come Pif, nomignolo coniato da Marco Berry, collega allo show televisivo di Italia 1.
Questo eterno ragazzo, faccia pulita e sorriso dolce, che sembra sempre un po’ imbarazzato e fuori posto, è oggi un affermato regista, passione tramandata dal padre; un sogno che ha perseguito con tenacia.  E «se ce l’ho fatta io in questo Paese – dice – vuol dire che c’è speranza per tutti».
Con il suo primo lungometraggio La mafia uccide solo d’estate (2013), da cui è stata tratta l’omonima serie televisiva per RAI 1, si è aggiudicato due David di Donatello, tra cui quello come miglior regista esordiente. Sempre nella sua Sicilia, con lo stile leggero ma non superficiale che lo contraddistingue, ha ambientato In guerra per amore (2016) e ora sta lavorando al suo terzo film che – ci anticipa – affronterà un altro tema scottante: il lavoro.

Pif la Iena, gli esordi con Zeffirelli

Gli esordi non sono facili. Da giovanissimo assiste Franco Zeffirelli dedicandosi in realtà alla sua amatissima cagnetta Blanche. «Un’esperienza meravigliosa che mi ha permesso di stare accanto al regista», ricorda. Da Palermo poi vola a Londra dove, per pagarsi un corso di Media Practice, lava anche i cessi: «Ne ho ricavato una lezione enorme. Poi ti ricordi tante cose».
Aneddoti che racconta a Verona, Cortile del mercato vecchio, durante uno dei tanti incontri di presentazione del suo primo romanzo …che Dio perdona a tutti, scritto per Feltrinelli (novembre 2018), 100 mila copie vendute in pochi mesi. Una commedia ambientata a Palermo tra dolci siciliani, amore, fede e amicizia. 
Finita la presentazione, ressa per il firmacopie. Per l’intervista concordiamo un appuntamento telefonico, appena in tempo prima della sua partenza per New York.

Copertina libro Pif
... che Dio perdona a tutti, Feltrinelli, 2018
Foto di Margherta Caprilli

Il romanzo di Pierfrancesco Diliberto

Il tuo ultimo libro, … che Dio perdona a tutti, inizia con tre puntini di sospensione. Come mai questa scelta? 

«Sarebbe stato “Futti, futti, che Dio perdona a tutti”, un’espressione siciliana che sintetizza al meglio il concetto di fede dell’italiano medio. Alla fine c’è un prete che ci assolve: due Ave Maria e tre Padre Nostro. Ma temevo che un non siciliano non ne capisse il senso, e poi non volevo spaventare ma coinvolgere il mondo della Chiesa. Così – democristianamente – abbiamo messo i tre puntini di sospensione. Tra l’altro ho avuto l’occasione di consegnare il libro al Papa e meno male che ho messo i tre puntini, altrimenti vagli a spiegare il “Futti, futti”.» 

La storia d’amore tra i due protagonisti – Flora molto credente e Arturo credente “come tutti” – fa riflettere sul tema della fede.  Quanto c’è di personale?

«Io ho avuto un’educazione cattolica: ho fatto il chierichetto, le elementari dalle suore, ho visto 8 volte “Marcellino pane e vino”, ho un curriculum impeccabile. Poi, ad un certo punto, ho pensato che da adulto era più coerente smetterla di dire di essere cristiano se alla fine non faccio una serie di cose: non vado in chiesa, non credo nei miracoli, non sono sicuro che Dio esista, anche se non posso neppure dire il contrario...» 

Quindi?

«Io sono un agnostico, ma spero che Dio esista. Paradossalmente, da quando mi sono dichiarato, Dio è più presente. Quando tu dai per scontata la sua presenza non lo cerchi più. Credo che perfino il Papa si faccia più domande su Dio di quanto possiamo pensare. Nel libro, che ha un approccio da commedia, il tema di fondo è: cosa succederebbe se uno applicasse veramente la parola del Signore, soprattutto in questo periodo?»

Oggi se si pratica il Vangelo vieni considerato un buonista

Arturo parte all’attacco, decidendo di diventare un cattolico praticante come vorrebbe Flora. E qui cominciano i problemi. La via del Vangelo secondo te è possibile viverla nella società attuale?

«Oggi se uno pratica la parola del Signore viene scambiato per un buonista. San Francesco sarebbe considerato un buonista radical chic, perché figlio di ricchi che finge di fare il povero, oppure un estremista. Amare il prossimo come te stesso ha un senso molto più complesso di quello inteso da alcuni nostri ministri, che per “prossimo” intendono il prossimo a sé, cioè aiutare prima gli italiani. Il prossimo è prossimo di qualunque colore, etnia, e capisci che è difficile amare il prossimo in questo modo, eppure questo ci chiede.»
 
Anche quando è sporco, puzzolente e magari insistente? 

«Se pensi che alla fine San Francesco si avvicina alla parola del Signore andando dai lebbrosi – e i lebbrosi in quel periodo erano come i nostri extra comunitari, i nostri Rom – faceva la cosa più scomoda che in quel momento la società poteva vivere. Se non ti è facile farlo, non ti dichiarare cristiano come fanno certi politici.»
 
Cos’è, un libro denuncia sull’ipocrisia di chi si professa in un modo e poi vive in un altro?

«Se gli italiani fossero veramente cristiani non ci troveremmo nella situazione in cui siamo, non ci sarebbe tutta questa corruzione, non ci sarebbero le mafie. È un dato di fatto.»
 
Ci tieni a «raccontare il peccato e non il peccatore». Una regola che chi fa giornalismo dimentica?

«Anche quando lavoravo con Le Iene non mi piaceva andare con il dito puntato ma raccontare il fenomeno. In un paese democratico questo è fondamentale, perché poi la gente ti scambia per il giustiziere, mentre un programma televisivo non è un tribunale dove si fanno i processi. Chi fa questo lavoro ogni tanto fraintende la cosa.»
 
«Più sei povero più sei libero» avevi detto quando sei partito con Il testimone. Puoi spiegare?

«Certe volte la povertà dei mezzi stimola la creatività. Per scelta ho fatto un programma televisivo come Il testimone con delle attrezzatture amatoriali. George Clooney, ad esempio, se lo riprendi con la videocamera ad alta definizione è una cosa, se lo riprendi con quella che usi per la comunione di tuo fratello, diventa umano come noi. Così se io vengo da te con la troupe televisiva è una cosa, se vengo con la telecamerina è un’altra. Con la povertà dei mezzi diventa tutto più spontaneo.»

Pif: «C'è qualcuno che non vorrebbe ricordare...»

Anche quando affronti temi come la mafia lo fai con il sorriso e quell’ironia che ti caratterizza. Perché questa scelta? 

«È il mio modo di raccontare le cose. Mi piace sdrammatizzare, quando si può. Se si smette di sorridere significa che è finita. È una cosa spontanea. Poi, se parlo di mafia, mastico una materia ahimè familiare e capisco dove fermarmi.»

Si dice che la mafia c’è ma non si vede. È ancora così o il sacrificio di molte persone è servito a qualcosa? 

«In realtà la mafia non si vede perché non la si vuole vedere, perché è faticoso, più impegnativo. Fingi di equivocare, ma non è così difficile da vedere. Fino a qualche tempo fa se a Palermo ti rubavano il motorino, invece di andare dalla polizia andavi dal mafioso del quartiere, pagavi un riscatto e riavevi il motorino. In quel caso Falcone e Borsellino sono morti inutilmente, dipende dai nostri gesti.» 

Il protagonista de La mafia uccide solo d’estate porta il figlio per Palermo a vedere le targhe con i nomi di chi è morto lottando per sconfiggere la mafia. 

«Girando l’Italia mi rendo conto che è piena di persone che fanno cose straordinarie. Rischiano veramente la vita, ma incredibilmente sono storie che pochi conoscono. Oggi se a Palermo si può aprire un negozio senza pagare il pizzo, cosa impensabile 20 anni fa, è grazie al lavoro di migliaia di persone, e alcune di queste non ce l’hanno fatta: non possiamo dimenticare quello che è successo. E c’era qualcuno che non voleva ricordare nemmeno i partigiani. Lì è la storia che insegna.»  

Cioè?

«Questa cosa mi ha fatto indignare, tanto che ho scritto una lettera al ministro dell’Interno. Possiamo aprire tutte le riflessioni che vuoi sulla lotta partigiana, ma il dramma è che in questo Paese non si è fatta una riflessione sul fascismo. Ci siamo ripuliti la coscienza dicendo che il cattivo era Hitler e non Mussolini. Il derby tra fascisti e comunisti è lo stesso meccanismo che si stava instaurando anche al maxi processo: un derby tra la mafia e anti-mafia. Prendendo le distanze, abbiamo abdicato come non ci riguardasse.» 

Come personaggio pubblico che responsabilità senti nel risvegliare le coscienze?

«Mi sentirei un uomo orribile se non facessi qualcosa. Io voglio morire con la coscienza a posto e dire: “Ho fatto tutto quello che potevo”. Mi rivedo molto in ciò che diceva un prete che ho intervistato: “Non so se riuscirò a cambiare questo mondo ma di sicuro questo mondo non cambierà me”.» 

Oggi con papa Francesco che idea di Chiesa ti sei fatto?

«È la Chiesa di papa Francesco che mi ha ispirato il libro. A me sembra quella vera, quella più difficile, quella reale e faticosa. Sono convinto che papa Francesco, oltre ad essere molto amato, sia anche molto odiato, soprattutto all’interno della Chiesa cattolica, proprio perché sta dando concretezza alla parola di Dio. Una concretezza che anche uno che non ha studiato percepisce. Per noi agnostici è un Papa giusto per metterci in crisi.»                          

Tu hai molta presa tra i giovani. Come li vedi? 

«Ricordo il papà di un mio amico che quando arrivò il flipper criticava il figlio perché ci passava tanto tempo con i suoi amici. La natura dei ragazzi è sempre uguale. Ora non c’è un flipper ma venti milioni di flipper che ti possono distrarre. I social network o il cellulare sono un mezzi che ci facilitano la vita, non un fine. Oggi se ti piace una ragazzina la puoi abbordare con il cellulare, poi però il piacere del primo bacio internet non te lo dà, devi avere tu il coraggio.» 

Pif mentre fa una scena
Foto di Polo Ciriello

Pif e il suo nuovo film

Qualche indiscrezione sul nuovo film a cui stai lavorando? 

«Parlerà del mondo del lavoro, ma è ancora presto per scendere nei dettagli. Ricordo quando nel ’92, finita la scuola, c’era tangentopoli, era tutto fermo. Si pensava fosse un periodo brutto. Ma se penso a quello che oggi un ragazzo affronta quando finisce la scuola, tremo per lui. C’è una leggera tendenza alla schiavitù, spacciata per libertà.» 

Nel libro troviamo una citazione: «Predica il Vangelo e se necessario anche con le parole».

«È una frase attribuita a San Francesco e spero che l’abbia detta veramente lui.  San Francesco e santi laici come Giovanni Falcone e Rocco Chinnici mi mettono in crisi perché hanno fatto cose che potrei fare anch’io. E quando incontri uno che ha fatto una cosa grandiosa ed è esattamente come te, ecco, quella è una cosa che mi mette in crisi e mi avvicina molto alla fede.»

Ma sei sicuro di essere veramente agnostico?

«Sì, ma come mi definì un giornalista: un “agnostico francescano”.»