Foto di U.S. Air Force photo by Tech. Sgt. Robert J. Horstman
Se tutti i Paesi dell'alleanza atlantica raggiungessero l'obiettivo di portare le spese militari al 2% del PIL, le emissioni potrebbero aumentare fino a 467 milioni di tonnellate l'anno. Questo renderebbe il settore militare NATO una delle principali fonti emissive al mondo
Mentre la crisi climatica impone tagli drastici alle emissioni globali, le potenze occidentali aumentano vertiginosamente le spese militari. Secondo uno studio pubblicato in esclusiva dal
Guardian,
l’incremento delle spese per la difesa da parte dei Paesi NATO potrebbe generare fino a 200 milioni di tonnellate aggiuntive di CO2 equivalente all’anno, mettendo seriamente a rischio gli impegni previsti dall’Accordo di Parigi.
Il
report, redatto dal Transnational Institute (TNI) in collaborazione con l’International Peace Bureau,
ha analizzato le implicazioni ambientali dell’obiettivo che la NATO ha ribadito nel 2023: portare tutti i Paesi membri a destinare almeno il 2% del proprio PIL alle spese militari entro il 2028. Lo studio rivela come questa corsa al riarmo possa non solo alimentare l’instabilità geopolitica, ma anche aggravare la crisi climatica.
L’impronta di carbonio della macchina bellica
Nel 2023 la spesa militare globale ha raggiunto livelli record: 2.460 miliardi di dollari, di cui 1.340 miliardi imputabili ai soli Paesi NATO. Le emissioni associate a questo budget ammonterebbero a circa 233 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, una cifra superiore all’impronta annuale di Paesi come il Qatar o la Colombia.
Ma se tutti i membri dell’alleanza atlantica raggiungessero l’obiettivo del 2%, secondo lo studio, le emissioni potrebbero aumentare fino a 467 milioni di tonnellate l’anno. Questo renderebbe il settore militare NATO una delle principali fonti emissive al mondo, con un'impronta superiore a quella annuale della Russia.
A differenza di altri settori economici, quello militare resta largamente esentato da obblighi di trasparenza: l’Accordo di Parigi non impone agli Stati di rendicontare le emissioni generate dalle forze armate. Ad oggi, solo quattro Paesi forniscono dati sulle proprie emissioni militari all’UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), lasciando fuori milioni di tonnellate di CO2 dai bilanci ufficiali.
UE: spesa armamenti aumentata del 30% dal 2021
Pochi eserciti forniscono dati trasparenti sull’entità del proprio consumo di combustibili fossili, ma
i ricercatori stimano che, complessivamente, le forze armate siano già responsabili del 5,5% delle emissioni globali di gas serra. Questa percentuale è destinata ad aumentare, man mano che le tensioni si intensificano in diverse regioni del mondo e che gli Stati Uniti – da decenni il maggior finanziatore del settore militare a livello globale – spingono i propri alleati della NATO a destinare risorse significativamente maggiori alle forze armate.
Secondo il
Global Peace Index,
nel 2023 il livello di militarizzazione è aumentato in 108 Paesi. Con
92 nazioni coinvolte in conflitti armati – in luoghi che spaziano dall’Ucraina a Gaza, dal Sud Sudan alla Repubblica Democratica del Congo – con le tensioni crescenti tra Cina e Stati Uniti intorno a Taiwan e il conflitto latente tra India e Pakistan in fase di riacutizzazione, molti governi temono una possibile escalation bellica e stanno investendo massicciamente nei propri apparati militari. In Europa, l’incremento è stato particolarmente marcato:
tra il 2021 e il 2024, la spesa in armamenti da parte degli Stati membri dell’Unione Europea è aumentata di oltre il 30%, secondo i dati dell’
International Institute for Strategic Studies.
Nel marzo 2025, l’UE ha annunciato l’intenzione di spingersi oltre: il piano “
ReArm Europe” prevede un’ulteriore spesa di 800 miliardi di euro in ambito difensivo in tutto il blocco comunitario. In un’analisi realizzata per l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari del Disarmo, Kinney e colleghi hanno esaminato le potenziali conseguenze dell’aumento della militarizzazione sugli obiettivi climatici. Le loro conclusioni sono allarmanti: l’incremento previsto delle emissioni derivante dalla rimilitarizzazione della NATO equivale a consumare una quantità di carbonio pari all’intero “budget” residuo per un Paese vasto e popoloso come il Pakistan.
Un costo climatico e sociale enorme
Lo studio del TNI mette in luce un altro aspetto fondamentale: le spese militari non sottraggono solo risorse al clima in termini di emissioni, ma anche in termini economici. Se tutti i membri NATO portassero le spese militari al 2% del PIL, entro il 2028 si stima che verranno investiti circa 2.570 miliardi di dollari in armamenti.
Si tratta di risorse che, se reindirizzate, potrebbero coprire i costi di adattamento climatico per tutti i Paesi a basso e medio reddito per almeno sette anni, secondo le stime del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP).
Il confronto è crudele: da un lato si finanzia l’espansione militare, dall’altro si negano fondi vitali a comunità vulnerabili che già oggi affrontano gli impatti della crisi climatica.
La direttrice del TNI, Fiona Dove, è esplicita: «La corsa al riarmo della NATO sta consumando lo spazio fiscale e planetario di cui abbiamo disperatamente bisogno per affrontare l’emergenza climatica».
Armi verdi? Un mito
Davanti a queste cifre, cresce la pressione sull’industria della difesa per rendere più “sostenibili” le proprie attività. Negli ultimi anni, diverse aziende del comparto militare hanno lanciato iniziative per ridurre le proprie emissioni, come
l’adozione di biocarburanti o l’ottimizzazione energetica delle basi militari.
Ma secondo gli autori dello studio,
si tratta per lo più di greenwashing. I progressi tecnologici in ambito bellico — ad esempio il passaggio a veicoli elettrici o aerei meno inquinanti — non riusciranno mai a compensare l’aumento di produzione, esercitazioni, movimentazione di truppe e operazioni belliche che l’espansione degli arsenali comporta.
Benjamin Neimark, geografo politico e co-autore di numerosi studi sull’impatto ambientale della guerra, ha affermato che «
non si può costruire una macchina da guerra a basse emissioni». E senza trasparenza, aggiunge, «le forze armate restano una zona franca dalle responsabilità climatiche».
Pace e clima come questioni inseparabili
L’aumento delle spese militari della NATO, spacciato per esigenza di sicurezza, rischia di trasformarsi in una minaccia per la sicurezza climatica globale. Lo studio del TNI mostra chiaramente che ogni miliardo speso in armamenti sottrae risorse economiche e spazio di manovra climatica, proprio mentre l’IPCC avverte che le emissioni globali devono iniziare a calare entro il 2025 per evitare gli scenari peggiori.
L’idea di “sicurezza” non può più essere disgiunta dalla tutela dell’ambiente. La militarizzazione della politica internazionale alimenta non solo conflitti, ma anche riscaldamento globale, inquinamento e disuguaglianza.
Rimettere al centro la cooperazione, il disarmo e la giustizia climatica non è più una scelta ideologica, ma una necessità planetaria.