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19 Maggio 2019

Santino Spinelli: «Sono un Rom e ho due lauree»

Lo abbiamo intervistato nel giugno del 2012 in occasione dell'uscita del sul libro: <em>Rom, genti libere</em> in cui  spiega che l'essere nomadi non è nella cultura dei Rom
Santino Spinelli: «Sono un Rom e ho due lauree»
Due lauree, musicista, professore universitario, ha sentito «il dovere morale di spiegare chi sono veramente i Rom» per abbattere gli steccati etnici. Perché, dice, «esiste una sola razza, quella umana».<br /> <br /> <br />
«Ma ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l'amore e rotolarsi per terra. Ho visto anche degli zingari felici in piazza Maggiore a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra».
Così cantava nel 1976 il cantautore Claudio Lolli, alimentando lo stereotipo di tipo romantico dello zingaro girovago sul suo carrozzone, libero dalle costrizioni delle istituzioni.
Ma è proprio vero che questo popolo che noi chiamiamo “zingaro”, in nome di una fatiscente libertà preferisce vivere ghettizzato e in maniera disumana? Guadagnandosi da parte di noi Gagé (i non Rom) appellativi come ladri, sporchi, bugiardi, fannulloni, vagabondi, che di romantico hanno molto poco?
L’alone di mistero che ha avvolto questo popolo e la disinformazione che ne consegue, l’hanno reso facile preda di pregiudizi e mistificazioni legate all’etnia, anziché attribuire eventuali errori alle responsabilità delle singole persone.
A fare chiarezza, sfatare luoghi comuni, abbattere stereotipi, ci ha pensato Santino Spinelli, in arte Alexian, un Rom abruzzese, due lauree, nonché docente universitario e musicista, con il suo libro Rom, genti libere (Dalai editore, 2012). Un poderoso volume, un saggio accademico sulla storia, l’arte e la cultura di un popolo misconosciuto. Dei Rom, Sinti Kalè, Manouches e Romanichals, cinque gruppi etnici che in realtà formano un unico popolo, quello romanì. Scopriamo che nel popolo Rom si celano molti personaggi famosi, che hanno arricchito e arricchiscono la comunità. «Se ci stupiamo – dice Spinelli – è la prova di quanto siano radicati i pregiudizi». Lui è il primo Rom docente universitario in Italia, e non cela la propria identità e la sua cultura ma la svela con la sua vita, fatta anche di musica. Capello lungo nero, occhio profondo e sveglio, ci viene incontro mettendoci subito a nostro agio. E quando gli chiediamo se possiamo dargli del “tu”, Santino ci risponde dandoci un’altra lezione di cultura Rom. «Nella nostra lingua, che è lo specchio della nostra identità, non esiste il lei, non ci sono caste, esiste solo il rispetto del vecchio, del patriarca, il phuro».
Ci accomodiamo davanti ad una tazza di caffè nella veranda dell’agriturismo che lo ospita prima dei prossimi appuntamenti. «Qui si mangia veramente bene – dice –. Sto proprio come uno zingaro, anzi come uno zingarone».
 
Ma non dobbiamo smettere di chiamarvi zingari?
«L’ho detto ironizzando. Zingaro, infatti, è un eteronimo, la maniera in cui un popolo definisce un altro popolo ed ha una connotazione fortemente negativa. Deriva da una setta eretica, dedita alla magia, gli “Atsingani”, che rifiutava il contatto fisico con le popolazioni circostanti. È come dire ad un italiano: ti chiamo mafioso tanto è uguale a italiano. Ma non è la stessa cosa».
 
Un Rom che racconta dei Rom. C’era bisogno di riscrivere la vostra storia?
«Certo che c’era bisogno. Il libro va a colmare, almeno in Italia, un vuoto di conoscenza, cercando di mettere in evidenza anche il punto di vista dei Rom, per non essere soggetti di studio ma di confronto».
 
Perché «Genti libere»?
«Va inteso non in senso romantico, che coincide con concetti psicologicamente negativi: liberi dagli impegni, dalle responsabilità, liberi dai requisiti igienici, etc….  ma nel senso di un popolo che ha saputo mantenere la propria identità forte e chiara nel tempo e nello spazio, senza fare guerre. I Rom non è che non vogliono l’integrazione, non vogliono l’assimilazione».
 
Di che identità stai parlando?
«Dell’identità dei Rom, della popolazione romanì, della cosiddetta romanipé. Dall’India del Nord sono arrivati in Europa, in tutto il mondo, anche attraverso le deportazioni. Un popolo transnazionale, paradigmatico con una forte identità che si è rafforzata nei secoli, purtroppo grazie alla repressione esterna. Più è stata forte la repressione più l’identità romanì si è rafforzata».
 
Sei un Rom italiano, la tua identità da chi ti è stata trasmessa?
«Dalla mia famiglia, in cui parliamo continuamente romanès. L’uso della lingua è l’espressione più alta di una identità. Quando ero ragazzo queste due identità, italiana e rom, erano due fiere ferocissime che potevano sbranarmi. Ho dovuto renderle mansuete e invece di contrapporle, le ho sovrapposte, e quella che doveva essere una disabilità è diventata la mia forza».       
 
Il fatto di essere Rom è stato per te oggetto di discriminazione?
«è inevitabile subire discriminazioni in una società chiusa nei confronti dei Rom. Qual è oggi l’emblema della discriminazione, quella più visibile? I campi nomadi. In altri paesi del mondo verrebbero indicati come ghetti, in Italia l’essere nomadi passa come un fatto culturale».

Un altro stereotipo da demolire?
«Non è nella cultura Rom essere nomade. Lo spostamento è sempre stato forzato, frutto di persecuzioni, di discriminazione: dicesi mobilità coatta o coercitiva. I Rom sono esseri umani normalissimi che se posti in una condizione di normalità o di degrado, reagiscono come tutti gli altri. Ad esempio: Scampia, Napoli, italiani, degrado, ghetto. I campi nomadi sono la stessa cosa. Non è un fenomeno culturale ma sociale. Solo che per i Rom si pensa che sia un fatto culturale. Il 70% dei Rom vive nella normalità, ma un Rom che ha un panificio o lavora in banca o alle poste non interessa».    
 
Quando pensiamo a un Rom lo pensiamo in una roulotte. Tu dove sei vissuto?
«Non sono mai vissuto in una roulotte. I Rom sono figli del loro tempo, sempre e comunque».                   
 
Come il popolo ebreo anche i Rom e i Sinti sono stati perseguitati ed uccisi nelle camere a gas dei campi di concentramento.
«Tutti sanno cos’è la Shoà, pochi sanno cosa significa Porrajmos, il genocidio di almeno 500 mila Rom e Sinti durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli Ebrei sono stati risarciti anche attraverso la conoscenza, i Rom no. Ancora oggi essi non hanno il riconoscimento dei diritti umani. Oggi c’è la violazione dei diritti elementari, il diritto alla casa, all’istruzione, al voto… e i campi nomadi sono la stessa cosa dei lager».
 
Eppure ancora oggi i Rom tendono a rimanere ai margini della società. Li vediamo protagonisti di atti di violenza o di degrado…
«Sono i riflessi della discriminazione non effetti culturali. Perché se uno ha compiuto un reato si mette in evidenza l’etnia di appartenenza? Chi si comporta male ha un nome ed un cognome, perché condannare tutti? Spesso le persone non sono discriminate perché di comportano male, ma si comportano male perché sono discriminate».
 
Ed è frutto del disagio…                     
«No. È frutto di una strategia politica ben congeniata che si chiama repressione, discriminazione, e il problema non è soltanto italiano ma europeo».   
 
Ritieni corretto promuovere una politica diretta all’integrazione dei Rom o è sufficiente che i Rom possano accedere alle politiche generali?
«Intanto si deve parlare di inclusione e non di integrazione. I Rom devono accedere ai servizi pubblici. È inutile creare un circuito speciale come si tende a fare, per creare una nuova forma di ghettizzazione. La differenza è culturale e i doveri si possono ottemperare solo quando sono riconosciuti i diritti».           
 
Per la Giornata Mondiale della Famiglia a Milano sei stato invitato assieme ad altri artisti a suonare davanti al Papa.
«Sua Santità ha voluto anche una famiglia rom, e noi siamo una delle pochissime famiglie rom italiane cattoliche che continuano questa tradizione.  Suonerò con i miei figli il Padre Nostro in lingua rom, Murdevèlë Mèngrë.
 
Rom e Gagé si possono incontrare?
«Si devono incontrare. Si può crescere solo se si può stare assieme superando la sindrome del ghetto, che porta violenza». 
 
L’incontro tra le due culture lo vivi anche in famiglia.
«Mia moglie è italiana. L’intercultura non l’ho soltanto teorizzata io l’ho praticata nella vita. L’amore sovrasta i limiti angusti dell’etnia, della razza. Esiste una sola razza, quella umana. E l’amore supera gli steccati etnici».

«Vorrei salutarvi alla maniera romanì – dice Spinelli – quando si incontra una persona cara: But baxt ta sastipè, che voi possiate essere sani e fortunati».