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24 Aprile 2024

Pestaggi al Beccaria. Parla il cappellano don Claudio Burgio

Il cappellano: «I pestaggi tra i ragazzi sono all'ordine del giorno, da lì a pensare che alcune situazioni che ho visto fossero causate dagli agenti, non ci arrivavo proprio. Il mondo delle istituzioni deve capire cosa non ha fatto prima e cosa può fare adesso».
Pestaggi al Beccaria. Parla il cappellano don Claudio Burgio
Foto di Dev Asangbam
Nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, un'inchiesta rivela un sistema di violenza e abusi perpetrati da 25 agenti di custodia, scuotendo le fondamenta della struttura dedicata alla rieducazione dei giovani. Intervista al cappellano don Claudio Burgio.

Il carcere minorile Cesare Beccaria di Milano come un girone infernale nel quale l’unica legge che conta è la violenza. Un luogo che, sulla carta, dovrebbe servire alla rieducazione e al reinserimento dei ragazzi che sbagliano, era diventato teatro di torture e di abusi. Sono stati arrestati 13 agenti di custodia, altri 8 sono stati sospesi dal servizio, in tutto gli indagati sono 25.
Al Beccaria presta servizio come cappellano don Claudio Burgio, che è anche il fondatore e animatore della Comunità Kayros.
 

Don Claudio, qual è stata la tua prima reazione a questi fatti?

don claudio burgio
Cappellano del carcere minorile a Milano, è fondatore e presidente della associazione Kayros, per adolescenti e giovani difficili.
 «Sono rimasto sbalordito. Il Beccaria da tempo vive una situazione difficile, i ragazzi che finiscono lì dentro sono molto agitati, aggressivi, anche violenti in alcuni casi. Immaginavo che alcune situazioni di conflittualità fossero all’ordine del giorno, ma che fossero causate da agenti della polizia penitenziaria non me l’aspettavo. Soprattutto in questa forma, se i fatti denunciati saranno confermati nei processi.»

«In carcere è come se la violenza fosse da loro accettata come qualcosa di normale» 

Lei non si era mai accorto di nulla? Nemmeno un sospetto?

«Mi sono sempre accorto di pestaggi tra i ragazzi, che sono all’ordine del giorno, specialmente in alcuni periodi, perché sono ragazzi molto aggressivi, alcuni hanno anche disturbi di tipo psichiatrico, per cui non è facile contenere le loro azioni. Però, ripeto, da lì a pensare che alcune situazioni che ho visto fossero causate dagli agenti, non ci arrivavo proprio.»
 

Al Beccaria per lungo tempo c’è stato un periodo di latitanza nella governance

I ragazzi non si confidano se hanno subito una violenza?

«Di solito con me si confidano quando sono in comunità, ma in carcere è come se la violenza fosse da loro accettata come qualcosa di normale, come se facesse parte della vita in quell’ambiente. Questo mi sconcerta. Forse non hanno parlato per intimidazione, magari dalle indagini emergerà anche questo, però tutto ciò è incredibile. Sono ragazzi abituati alla violenza, l’ambiente carcerario ha fatto apparire tutto come normale. Questa è una mia lettura, da verificare dai fatti. È anche vero che in quel periodo io ero un po’ meno presente, però negli episodi più recenti mai mi sarei aspettato che fossero coinvolti gli agenti di polizia penitenziaria.»
 

Colpisce il numero elevato degli agenti coinvolti. Sembra che non sia il problema di quale “mela marcia”. C’è un problema umano che coinvolge anche gli agenti?

 
«I reati sono reati, se sono accertati, vanno perseguiti. Il problema è che per lungo tempo c’è stato un periodo di latitanza nella governance del Beccaria. Non avevamo un direttore stabile, c’erano sempre dei facenti funzione, si era creato un malessere molto profondo nel lavoro e nell’organizzazione del carcere. Quando c’è un non governo, passare da un’istituzione totale a un’istituzione totalitaria, il passo è breve.»
 

I ragazzi sono molto agitati. In carcere servono educatori veri

E a subirne le conseguenze sono i ragazzi incarcerati…

 
«Sono numerosi i minori stranieri non accompagnati che arrivano in Italia e molti poi finiscono in carcere. Sono particolarmente agitati, anche se occorre riconoscere che pure gli agenti subiscono violenze. Lo dico senza giustificare nessuno, i reati sono reati e vanno perseguiti. Però questi ragazzi non si fermano davanti all’autorità, alla divisa, non c’è alcun rispetto, né a livello verbale né a livello fisico. È capitato più volte che qualche agente sia finito all’ospedale. La situazione era ingestibile da tempo, adesso era appena cominciato un miglioramento, grazie all’arrivo del nuovo direttore stabile. Probabilmente c’è un sistema che si è strutturato nel tempo, di cui anche noi non ci siamo resi conto.»
 

Cosa si deve fare perché il carcere torni ad essere una istituzione per la rieducazione, come vuole la Costituzione?

 
«Negli ultimi tempi si è molto insistito sull’inasprimento delle pene, fra l’altro sia a seguito dei fatti di Caibano sia a seguito dell’evasione a Natale dei sette ragazzi dal Beccaria. Quell’evasione, alla luce di questi fatti, cambia significato. Ne sono usciti penalizzati, criminalizzati i ragazzi, che pure si danno da fare, non lo nascondo, però bisogna andare in profondità e capire da dove nasce il disagio. Poiché il disagio ha a che fare con le istituzioni, con la figura dell’adulto, bisogna che anche l’adulto si metta in discussione. Il mondo delle istituzioni deve capire cosa non ha fatto prima e cosa può fare adesso. Bisogna investire perché le cose cambino. Ci vogliono educatori con la E maiuscola, ci vogliono agenti in numero adeguato, ed anche adeguatamente formati, perché i detenuti che hanno di fronte non sono come tutti gli altri. Occorre interrogarsi. Prossimamente avremo un incontro con il dipartimento della giustizia minorile. Vediamo se riusciamo a cambiare qualcosa. Sarà un processo lungo…»