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3 Giugno 2021

Dai palazzi alla Capanna

Un anno di Servizio Civile, tra lockdown, Consiglio dei diritti umani a Ginevra e persone senza fissa dimora
Dai palazzi alla Capanna
Sono 179 i giovani operatori volontari che la settimana scorsa hanno iniziato il loro anno di Servizio Civile con la Comunità Papa Giovanni XXIII. L'esperienza di Elisa come Casco Bianco
Un anno strano quello che ho passato, un anno caratterizzato da una pandemia globale, un anno in cui la  solidarietà internazionale è diventata fondamentale per leave no one behind. Il mio periodo come casco bianco è iniziato con una bellissima formazione, interrotta bruscamente dall’avvento del Covid. Dopo 4 giorni di conoscenza dei nuovi ragazzi Caschi Bianchi mi sono ritrovata su un treno direzione casa… I pensieri erano tanti, positivi, fin troppo positivi e tutti speravamo che dopo poco avremmo potuto rivederci e finire il nostro percorso di conoscenza per partire poi per le nostre mete.

Dalla delusione del lockdown alla bella notizia

Purtroppo non è stato così: 5 mesi in smartworking, 5 mesi di zoom e poi… 
la bellissima notizia: si poteva partire per Ginevra, si poteva partecipare al Consiglio dei Diritti Umani in presenza, avrei potuto scrivere degli statement e avrei potuto addirittura parlare al Consiglio. Mi sentivo nel posto giusto al momento giusto, e stavo facendo la cosa giusta. Stavo portando avanti la voce di chi non ha voce, la voce dei più vulnerabili delle persone che durante la pandemia stavano soffrendo più di me. Bambini donne anziani e migranti che hanno subito duramente le conseguenze del Covid. 
Le emozioni positive hanno poi lasciato spazio a quelle più cupe, un nuovo lockdown in Francia - dove vivevo con i miei compagni di avventura - e nuovi collegamenti web e gli eventi delle Nazioni Unite tutti online.

L'esperienza con i senza fissa dimora

Ed infine l’ultimo mese, il più difficile, il più inaspettato il più folle, il più divertente e di vera condivisione. Il mese alla Capanna di Betlemme di Rimini, una struttura che accoglie senza fissa dimora. Le storie degli accolti mi hanno completamente pervasa e mi portano spesso a riflettere. Venti persone, tutti uomini, per la maggior parte ex tossicodipendenti o alcolisti, che tutti i giorni cercano di affrontare la vita e di scacciare i fantasmi del loro passato. Non è sempre facile, ogni tanto ci ricadono, il richiamo delle sostanze è troppo forte o più semplicemente la libertà della strada, il fatto di non dover rendere conto a nessuno di quello che si fa, li porta a ricadere.
I volontari della Capanna, come se questi ragazzi fossero i loro figli, cercano sempre di accoglierli, di farli sentire a casa e amati, non giudicati per il loro passato, per i loro sbagli e le debolezze. Vorrei poter descrivere ogni loro storia per poter farvi capire cosa sto vivendo ma solo passando dalla Capanna credo si possa capire questo luogo e le storie che racchiude. In questo ultimo periodo ho accompagnato accolti a prendere la dose di metadone, ho accompagnato un signore agli arresti domiciliari a correre, ho cercato di dare il meglio di me per far sì che queste persone si sentissero finalmente a casa. E loro allo stesso tempo hanno dato tanto a me. Gigi, uno degli accolti, mi ha detto una frase che mi ha molto colpito: «Le persone come me non hanno paura di morire, hanno paura di vivere». Ecco, vorrei che questa frase potesse cambiare un giorno, vorrei che tutti i volontari della capanna riuscissero a far sentire talmente amati gli accolti, da poter permettere loro di vedere la vita come un’emozione che vale la pena di vivere ogni giorno.

Cosa mi porto nel cuore

Ed eccomi qui sul treno di ritorno per casa, intimorita dal fatto che dopo un mese con 20 persone sarà strano tornare a vivere una vita solo con mamma e fratello, e contenta del fatto che mi porterò nel cuore questo anno, gli incontri fatti, le cose imparate e le emozioni vissute.