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4 Febbraio 2021

Storie di resilienza

Il libro racconta le vite di persone in fuga da contesti di guerra: in Libano, in Palestina e in Italia.
Storie di resilienza
«La condivisione è tutto. È qualcosa che si vive, non si inventa. Non sei lì perché devi guadagnarci o perché è il tuo lavoro o la tua missione. Sei lì perché è davvero l'unico modo per fare le cose bene, per rendersi conto di quello che l'altra persona sta vivendo».
Lo scorso dicembre è uscito il libro intitolato La speranza ha il vestito azzurro. Storie di vite che non si sono arrese, scritto da Marco Canta e Alessandro Ciquera pubblicato da Effatà Editrice.
Abbiamo incontrato Ciquera, uno dei due autori, che da anni fa parte di Operazione Colomba, il corpo nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII.
 
Alessandro Ciquera ha 32 anni. È nato e cresciuto in provincia di Torino.
Nel suo percorso ha avuto grande impatto la vita in oratorio, «mi ha trasmesso tantissimo il valore del servizio, di non fare le cose solo per apparire ma di sentirle, soprattutto di esserle – racconta -.
All’università ho incontrato diversi gruppi di attivismo politico, nel senso più alto del termine. Ho fatto marce per la memoria delle vittime di mafia, per la legalità: tutte esperienze che mi hanno arricchito la coscienza, e anche in famiglia sono cresciuto a pane e politica!».
Arriva in Operazione Colomba dopo aver ascoltato la testimonianza di Davide, un volontario.
«Ci parlò degli accompagnamenti dei bambini in Palestina. All’inizio non fui particolarmente colpito, mi sembrava una cosa dove si andavano a prendere botte e basta. Ma mi rimase dentro una voce, che due anni dopo (a 21 anni) mi spinse a fare la formazione con Operazione Colomba. Poi partii per Twani, colline a sud di Hebron. Non mi interessava granché la destinazione, ma durante la formazione avevo sentito una cosa che mi risuonava dentro: “noi non siamo qui per morire per la pace ma per vivere per la pace”. In precedenza avevo fatto delle piccole esperienze all’estero, in Iraq particolarmente. Ma ero appesantito perché si sentiva solo e perché mi stavo spingendo troppo in là, per l’ansia di voler fare e per senso di colpa».
 
Non siamo qui per morire per la pace, ma per vivere per la pace restituisce ad Alessandro un’altra prospettiva. Le cose si possono fare anche senza esaurirsi. Così parte per la Palestina.  «Con tutti i limiti che mi portavo dietro la Palestina mi ha insegnato tantissimo. Ad avere prudenza, a non farmi guidare solo dalle emozioni forti».
Nel 2013 poi c’è stato il Libano, i campi profughi siriani, dove è rimasto circa 3 anni e dove oggi fa dei viaggi come referente dei corridori umanitari per Operazione Colomba.
 
Libro la speranza
Intervistare Alessandro è un rischio, da una parte di osannare troppo la persona e farla diventare un personaggio costruito e non vero, dall’altra di ridurlo, non rendere ciò che è.
Alessandro non merita nessuna di queste due semplificazioni.
Non di essere raccontato come un eroe, ma neppure che la sua profondità venga sminuita.
Innanzitutto è una persona umile. Un giovane che ha vissuto la guerra da volontario di Operazione Colomba, ma non pretende di spiegare, dare risposte, fare analisi o avere la verità in mano. Le sue storie, le sue parole, sono sempre una condivisione di dubbi, un cercare di superare gli stereotipi che noi occidentali ci portiamo immancabilmente dentro.
Le sue parole hanno sempre tanto stupore, verso realtà che non sono mai come ce le hanno raccontate, come ce le siamo costruite nell’immaginario tutto nostro, «della parte fortunata del mondo». Sono vita di persone a cui il racconto restituisce la dignità che «una storia maledetta conferisce alle sue vittime» – citando Ryzsard Kapuscinski.
Nella scrittura Alessandro è smarrito e pulito, non dà al lettore verità preconfezionate. Ci regala piccole chicche – immagini volti voci – prive di quell’ambiguità che si percepisce di fronte a un’intervista giornalistica o a una telecamera.
Leggendo le storie raccontate nel libro di Alessandro e Marco, quella di Aisha, di Ola o di Rabia, non si prova pietà, forse solo un po’ di senso di colpa per aver cercato di negarle, di dimenticare e cancellare alcune narrazioni. In questa narrazione infatti le persone respirano e vivono, esistono.
Alessandro scrive: «Ho viaggiato tanto in questi anni, ma molti viaggi non sono stati fisici. Come se impossibilitati dal farmi conoscere il loro Paese di persona, i siriani me lo facessero conoscere attraverso di loro, cercando di by-passare i confini tra Stati. Ho cercato di essere degno di questa fiducia di apertura su di un mondo privato, che mi ha regalato felicità e dolori. Sempre il male cresce vicino al bene, e quello su cui possiamo lavorare è come tenere il primo a bada, senza riuscire mai a sconfiggerlo del tutto».
Tra le pagine di La speranza ha il vestito azzurro non si può fare a meno di ritrovare anche quella profezia meravigliosa che è Operazione Colomba.
 
Anche prima di scrivere questo libro, tu hai sempre scritto… come è nata la tua passione per la scrittura. Perché scrivi?
«Ho sempre scritto da quando andavo alle elementari. Anzi ho sempre letto, e di conseguenza leggere tanto porta a scrivere perché è un modo per sentire più tue le parole.  
La scrittura ha sempre fatto parte di me. Le cose che facevo fatica a verbalizzare, per timidezza o introspezione, le scrivevo.  Scrivere allora è vivere. Ne ho avuto bisogno».
 
E il libro, come nasce?
«Conosco Marco Canta, il coautore, almeno da una decina di anni. È stato uno dei primi a occuparsi di asilo dei migranti in Italia, a parlare di Lampedusa e degli sbarchi. Ho sempre parlato a Marco delle mie scelte, di quello che vivevo, e gli ho sempre girato quello che scrivevo. Negli anni abbiamo spesso condiviso il pensiero che le cose bisognerebbe farle sapere di più, comunicarle. Non ci si può perdere nel dire che le cose vanno male, che gli italiani non capiscono. Se le cose non si raccontano come si può pretendere che gli altri capiscano?
Nel libro ci sono storie forti, abbiamo discusso molto sul concetto di resilienza. Sono storie di persone arrivate a Lampedusa dal Mediterraneo, alcune che Marco ha accompagnato nei percorsi di integrazione, e poi le mie storie di Operazione Colomba. Non tutte sono finite bene, e ci siamo resi conto che in questi racconti c’era molto la sofferenza delle persone, ma nessuna di loro doveva e poteva essere un semplice numero nelle statistiche. È nata così l’idea, con Marco che mi ha detto ‘bisognerebbe farci un libro!’ Ma non siamo solo due persone che si sono messe insieme per fare un libro, avevamo un rapporto, una relazione d’amicizia e il libro è frutto anche di questo, delle nostre chiacchiere».
 
La prefazione di Luigi Ciotti è molto bella. Un passaggio mi ha colpito: «Questo libro ci restituisce un incontro vero con l’altro dalla prospettiva di chi sa bene che l’altro, soprattutto se portatore di vissuti diversi e difficili, è una fonte di arricchimento continuo, uno specchio di ciò che siamo e di ciò che potremmo diventare. L’altro è misura e completamento dell’io, stimolo per ciascuno a pensarsi parte di una comunità solidale, dove il diritto negato di uno ferisce il senso di giustizia di tutti. E dove la speranza di uno è forza e ispirazione per tutti».
«Sì, Luigi ha proprio centrato quello che io Marco volevamo raccontare
È il fare spazio alla storia della persona: Luigi ha saputo capire lo spirito del libro anche senza molte parole.
È importante non sentirsi dei salvatori. L’abbiamo detto molte volte anche in Operazione Colomba: il triangolo vittima-salvatore-carnefice rende estremamente facile passare dall’essere salvatore nei confronti di qualcuno all’esserne il carnefice. Prima ti fai avanti per salvare poi ti accorgi di avere dei limiti e non puoi dare all’ altro quello che lui vorrebbe. Allora diventi il suo carnefice: tu mi hai portato qui e tu devi continuare a salvarmi fino a quando vivo. Questo triangolo malato c’è spesso in qualsiasi relazione, il libro ha l’aspirazione di romperlo, di non cadere nella trappola. Noi non siamo né vittime né salvatori né carnefici ma siamo delle persone, con i nostri limiti. Persone che cercano di fare quello che sentono giusto ma questo non cancella le contraddizioni. Il timore era di avere uno sguardo colonialista e trattare l’altro dall’alto in basso. Questo volevamo assolutamente evitare».
 
Immagino che ti porti dentro ognuna delle storie che racconti, ma qualcuna in particolare è più tua?
«Quelle dei bambini. Perché sono più autentiche. Le lacrime che abbiamo noi adulti a volte sono un po’ sporche, invece la sofferenza dei bambini e dei ragazzini è più diretta perché non è legata a qualcos’altro, non è una sofferenza di chi ha fatto qualcosa per trovarsi in una certa situazione. Per esempio c’è una storia che racconto nel libro, di un bimbo, Yunes. Lui ha una malattia molto grave, del sangue, per cui la mamma doveva pagare ogni mese una trasfusione con una medicina che costava 4000 dollari. È una cosa che in Italia si fa normalmente ma in Libano è impensabile. Se non hai soldi non ti curi. Lui sapeva che con una malattia così non si può vivere a lungo, e già veniva da una città in Siria che era stata bombardata. È diventato profugo con la sua famiglia in un Paese come il Libano in maniera estremamente precaria. Suo padre maltrattava la moglie, non era affezionato a questo bambino, si era anche allontanato dalla mamma, insofferente. Il pensiero di Yunes mi è rimasto molto. È l’idea di quante storie ci sono che incontriamo - o che non incontriamo affatto - di persone sole che amano la vita come l’amiamo tutti noi ma si trovano in questa grande solitudine dalla quale non riescono a uscire. Ho trovato il Vangelo in loro, mi sono sentito molto piccolo e ho ritrovato un po’ di fede proprio guardando queste persone. Ho capito cosa voglia dire che i pubblicani e le prostitute mi passeranno davanti nel regno dei cieli. Perché in loro ho trovato tanta fede. Non è una fede che salva materialmente, è una fede che ti permette di portare la tua croce e di attraversarla. Si impara tanto, proprio tanto».
 
Quanto è stata importante per te Operazione Colomba e la sua condivisione con le vittime?
«La condivisione è tutto. È qualcosa che si vive, non si inventa. Non sei lì perché devi guadagnarci o perché è il tuo lavoro o la tua missione. Sei lì perché è davvero l’unico modo per fare le cose bene, per rendersi conto di quello che l’altra persona sta vivendo. Uno può dire di voler stare allo stesso livello delle vittime, ma se non ti avvicini neanche lontanamente a quel livello, a capire quello che la persona sta vivendo... E non parlo di qualche ora e qualche minuto, se non ci stai con una prospettiva temporale precisa non ci arriverai mai.  E già così fai fatica: hai il passaporto diverso, una nazionalità diversa, te ne puoi andare quando vuoi, hai l’ambasciata alle spalle… 
Condivisione non vuol dire che la tua vita è uguale a quella dell’altro, questa è un’illusione! Se io mi ammalo l’ambasciata non mi lascia lì a morire, sono un italiano. Non possiamo arrischiarci a pensare che la nostra condivisione sia davvero essere uguale all’altro. Noi abbiamo una casa, degli amici che ci aspettano, qualcuno che festeggia il nostro compleanno, la possibilità di studiare e di fare dei progetti, di avere dei sogni… quindi non è assolutamente la stessa cosa. Quello che di enorme ha Colomba invece è che si avvicina di più, rispetto a tutte le altre organizzazioni che ho conosciuto, al mettersi a livello dell’altro. Perlomeno a fargli percepire che ti stai sforzando di farlo. La percezione dello sforzo molte volte grazie a Dio è sufficiente, l’altro lo accetta e non pretende che tu sia in miseria come lui. Lo apprezza se vede che stai provando ad ascoltarlo a guardare la sua situazione senza obbligo. Chiaramente però è un qualcosa che ti succhia molte energie. D’altro canto anche il pensare che si possa amare tutti e sempre è una grossa illusione. Si può sentire la tensione, il desiderio, ma non si può pensare davvero di poter amare tutti in qualsiasi momento. Sarebbe un delirio di onnipotenza».
 
Questo è il tuo primo libro (e speriamo che non sia l’ultimo). Si incontra una scrittura delicata, evocativa e poetica, adeguata e mai forzata, a partire dal sottotitolo stesso «storie di vite che non si sono arrese»: cosa ti ha dato vedere queste parole nero su bianco?
«Innanzitutto è stata una grossa emozione. Poi la sensazione di un lasciare andare, di aver accumulato dentro tanto e nel momento in cui quelle storie sono su carta nero su bianco e vengono distribuite è come se non fossero più solo mie. Ho provato un grande senso di leggerezza. Mi sono commosso quando è andato in stampa, oggi quello che sento è tanta gratitudine. Non lo vedo come un libro solo mio. A parte che appunto è mio e di Marco, l’abbiamo scritto in due, come fatiche e come realizzazione, ma non lo sento solo mio perché ci sono tante vite dentro. Quello che sento davvero è una grande gratitudine, verso chi ci ha ospitato le notti nelle grotte in Palestina o sotto le stelle in Libano, dai frati ad Aleppo a tutti quelli che ci hanno accolto e donato un pezzo della loro vita.
La scelta del sottotitolo è perché le storie sono loro. Doveva essere – spero lo sia -un libro che parla davvero di speranza, realistica e non illusa. Per questo vorrei che fosse letto senza nessuna retorica».