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20 Maggio 2022
Ultima modifica: 20 Maggio 2022 ore 09:31

Turchia. «Tra i profughi mi sento a casa»

Giulia ha scelto di vivere e lavorare in Anatolia, toccando con mano l'umanità ferita dalla guerra, ferma nel limbo di un futuro indecifrabile.
Turchia. «Tra i profughi mi sento a casa»
La Turchia continua la sua azione mediatrice nel conflitto russo-ucraino. Nel frattempo deve fare i conti con i 5 milioni di migranti presenti tra rifugiati e richiedenti asilo, in un Paese già in sofferenza a causa dell'inflazione che ha determinato l'aumento del costo della vita.
La Turchia, situata tra i Balcani, il Caucaso, il Medio Oriente e il Mediterraneo, è crocevia di profughi provenienti dalla Siria (3,7 milioni presenti nel Paese), dall’Afghanistan e ora anche dall’Ucraina. 
Arrivano nonostante il muro di 911 chilometri che divide la Turchia dalla Siria e l’altro muro, al confine con l’Iran, lungo finora 156 chilometri sui 300 previsti. Ma c’è anche un terzo muro di 40 chilometri al confine turco-greco, costruito dalla Grecia, che impedisce ai profughi di uscire dalla Turchia. L'Unione Europea ha fornito miliardi di euro ad Ankara che, in cambio, impedisce ai profughi di accedere all’Europa. 

Giulia mediatrice di lingua araba

Giulia dall’agosto del 2021 lavora con i gruppi di migranti più vulnerabili, come mediatrice di lingua araba, al centro d’ascolto per l'Ufficio diocesano anatolico di Caritas Turchia.
«È un centro molto particolare perché non sono le persone che vengono da noi – spiega – ma siamo noi ad andare da loro, dato che i rifugiati non si possono spostare liberamente da una regione e all’altra, serve un permesso del governo. Per raggiungerli facciamo anche dalle 8 alle 10 ore di macchina». 
Giulia conosce il mondo dei profughi perché, dall’Università di Padova, ha vissuto a lungo nei campi profughi di siriani in Libano, come volontaria di Operazione Colomba, il corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui lei fa parte. Ha toccato con mano l’umanità ferita dalla guerra, ferma nel limbo di un futuro indecifrabile. 
In Turchia è arrivata nel settembre 2020 per un tirocinio in un centro dei diritti umani per le donne e dopo la magistrale ha deciso di rimanervi. Vive a pochi chilometri da Aleppo, a stretto contatto con i siriani.
Da qualche mese è impegnata anche con Caritas Turchia, che agisce in tutto il territorio nazionale, come focal point per le emergenze. «Scrivo e gestisco tutti i progetti per le emergenze che riguardano le catastrofi umanitarie e ambientali, perché la Turchia è anche un territorio sismico con diversi terremoti o alluvioni.»
Sono quasi 5 milioni i migranti presenti tra rifugiati e richiedenti asilo, in un Paese già in sofferenza a causa dell’inflazione che ha determinato l’aumento del costo della vita. 

Quanti sono in Turchia i profughi ucraini?

Come si percepisce da lì la guerra in Ucraina?
«Noi percepiamo la guerra dal flusso di persone che arriva. Solo a marzo sono arrivati 20 mila ucraini in modalità turistica, poi però hanno bisogno di un posto dove stare. Arrivano migranti di seconda nazionalità che vivevano in Ucraina, studenti iracheni, turchi, doppiamente profughi, scappati già da una guerra precedente. Ci sono anche diverse persone russe che non vogliono tornare al loro Paese.»
 
Cosa fai con Caritas?
«Si lavora a più livelli, fornendo servizi di base e supporto per garantire i bisogni primari come cibo, cure mediche e alloggio. Ma puntiamo molto anche all’integrazione con la popolazione presente, promuovendo l’autonomia economica, l’accesso all’istruzione. È fondamentale che i migranti non si sentano tali per tutta la vita ma entrino nelle società e che la società riesca ad accettarli.» 

I profughi che Giulia incontra

Chi sono le persone che incontri nei tuoi lunghi viaggi?
«Ogni 2/3 ore di strada il territorio cambia in base al conflitto più vicino, ma anche in base al vissuto dei turchi di quella regione. La Turchia è enorme e ogni regione ha un modo di vivere diverso. Come Caritas copriamo tutti i confini ad est, tutto il sud, fino ad arrivare quasi ad Ankara. Incontro le minoranze di migranti cristiano irachene che spesso non hanno un sacerdote, cristiani afghani, comunità cristiane e armene turche. Le persone hanno non solo bisogni materiali ma anche spirituali: chiedono una messa, una vicinanza.» 
 
Che differenza c’è tra profughi siriani e afghani?
 «Ci sono leggi differenti in base alla nazionalità, che portano ad un conflitto anche tra profughi. I siriani godono dello status di rifugiato mentre gli afghani sono generalmente considerati migranti irregolari poiché hanno attraversato i confini senza documenti ufficiali.» 
 
Come affrontano la vita da profughi?
«Molti migranti vivono in una situazione di stallo, bloccati in Turchia. Anche dopo 10 anni nel Paese non si sentono a casa. Alcuni decidono di non imparare la lingua né mandare i figli a scuola perché pensano di tornare nella loro terra, altri sperano di continuare il viaggio verso Europa, Stati Uniti, Canada. È uno degli scogli più grandi che a volte ci impedisce di fare un progetto con le persone.»

Turchia, il futuro è donna

Che tipo di progetti riuscite ad attuare?
«Progetti di micro business. Creiamo spazi comunitari liberi per le donne, spesso isolate a causa della situazione familiare, in cui possano riunirsi, apprendere nuove tecniche di manodopera e diventare autonome. Io seguo 20 donne siriane che sanno fare un tipo di cucito molto antico, artigianato tradizionale del loro Paese. Alcuni oggetti vengono venduti al mercato. Altri distribuiti dalla Caritas Anatolia a chi è in difficoltà.»

Anche il popolo turco, dicevi, è in sofferenza.
«Nessun progetto è settario. La mensa è per tutti. La Caritas aiuta tutti, senza guardare alla religione o alla nazionalità.»  
 
I cristiani che ruolo hanno?
«Sono pochi e la maggior parte dei cristiani sono migranti. Ma ci sono anche cristiani turchi che si offrono di aiutarci. Il preservali è parte del ruolo della diocesi stessa. Caritas promuove e aiuta i pochi parroci finanziando le iniziative. Ad esempio la scorsa settima abbiamo organizzato nella nostra diocesi una tre giorni con 60 giovani cristiani, provenienti da tutto il mondo: iracheni, turchi, figli di ex migranti, qualche ragazzo africano. A coordinarli c’era padre Anthoine, che è turco.» 

I giovani in Turchia attirati dalla testimonianza d'amore

Da cosa sono attirati questi giovani?
«La maggior parte dei turchi è di religione musulmana ma molti oggi non sono praticanti, un po’ come avviene in Italia. La novità che vedo in questi ragazzi è che ha una fede molto forte. Sono attirati soprattutto dalla testimonianza, quando si sentono amati. Lo scorso Natale abbiamo celebrato 15 battesimi, alcuni anche di ragazzi grandi. Mi ha colpito un bambino afghano, avrà avuto 4/5 anni. Lo hanno immerso nell’acqua e poi se n’è andato in giro dicendo: “Io sono un super eroe come Gesù”.» 
 
Un’italiana in Turchia. Come ti senti?
«Mi piace vivere qui. Mi sento accolta nella diocesi e dal vescovo Paolo Bizzeti che è anche presidente della Caritas. Io ci metto due ore per andare a messa, una grande parrocchia con pochi cristiani ma molto convinti. Vivere in Turchia come straniero non è facile ma io mi sento inserita nella Chiesa tra i profughi. Mi sento in mezzo alla storia. Dentro ogni sofferenza c’è sempre qualcosa da imparare.» 

Fa soffrire sentire ragazzini siriani dire: «A noi l’Europa le armi non le ha comprate» 

Si riesce a creare una cultura di pace tra le vittime della guerra?
«Qui si incontrano persone arrabbiate, con diversi passati di guerra. Mi fa soffrire sentire ragazzini siriani dire: “A noi l’Europa le armi non le ha comprate”. O rispondere alla richiesta di una mamma ucraina che chiede soldi per comprare il giubbotto antiproiettile per il marito. La violenza non si cambia in poco tempo, ma rimanendo nella vita delle persone, creando dei corto circuiti d’amore e comprando un panino anziché un giubbotto antiproiettile. Ma ci vuole molta pazienza.»