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8 Agosto 2022
Ultima modifica: 8 Agosto 2022 ore 13:08

Tutta la plastica che mangiamo

I maggiori produttori di plastica prevedono un aumento del 30% in 5 anni. Plastica che finisce in mare e che noi alla fine ingeriamo. Ma "Non tutto il mare è perduto" ci spiega Giuseppe Ungherese di Greenpeace.
Tutta la plastica che mangiamo
Foto di Francesco Alesi / Greenpeace
Un materiale leggero, colorato, duttile, pulito, economico: sono queste caratteristiche che hanno portato dalla seconda metà del secolo scorso all'enorme diffusione della plastica. Nessuno prevedeva le gravi conseguenze che ne sarebbero derivate. Ma c'è ancora possibilità di intervenire, partendo dai consumatori.
A partire dagli anni ’50 la plastica è stata considerata sinonimo di progresso e di miglioramento della qualità della vita. Grazie anche alle scoperte di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, in quegli anni ebbe inizio una vera e propria rivoluzione tecnologica che portò alla nascita di un nuovo stile di vita denominato dal magazine americano Life Throwaway Living, “vivere usa e getta”. Il nuovo “materiale delle meraviglie” era leggero, colorato, pulito, moderno, economico e alla portata di tutti. Nessuno poteva immaginare le conseguenze a lungo termine che l’uso massiccio e così diffuso della plastica avrebbe portato.
Attualmente il settore che la utilizza maggiormente è quello del packaging che ne assorbe circa la metà della produzione globale. Nonostante negli ultimi anni stiano aumentando l’attenzione e la consapevolezza dei pericoli causati dall’abuso di plastica, il report di Greenpeace The Climate Emergency Unpacked del 2021 mette in evidenza che i maggiori produttori di plastica, come Exxon Mobil, Shell, Saudi Aramco, Formosa e Borealis, prevedono di aumentare le loro capacità produttive del 30% nei prossimi 5 anni, grazie alla sempre maggiore richiesta delle multinazionali come Coca Cola, Nestlé, Danone, Unilever, Colgate Palmolive, Procter & Gamble, che utilizzano questo materiale per gli imballaggi.
Il CIEL, Center of International Environmental Law, stima che, se la produzione di plastica continuerà a seguire l’attuale andamento, l’intero ciclo (estrazione dei combustibili fossili, la loro raffinazione e l’incenerimento del packaging a fine vita) porterà a una crescita del 50% di emissioni di anidride carbonica nell’ambiente entro il 2030.
Crisi climatica e inquinamento da plastica sono quindi due fenomeni strettamente connessi.

Ne parliamo con Giuseppe Ungherese, Responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, autore del libro Non tutto il mare è perduto. Viaggio lungo le coste italiane alla scoperta di un ecosistema soffocato da plastiche e microplastiche. Responsabilità e soluzioni (Casti Editore)
Libro Non tutto il mare e' perduto di Giuseppe Ungherese

Il mito del riciclo

Alcune multinazionali investono in campagne di comunicazione che ci inducono a credere che il riciclo della plastica sia la soluzione al problema, ma è davvero così?
«Da decenni importanti campagne di marketing ci hanno indotto a credere che il problema dell'abuso di plastica potesse essere risolto solo gettando i rifiuti negli appositi cassonetti. Da qui è nato il mito del riciclo. Eppure i dati scientifici più recenti sono impietosi e ci indicano che di tutta la plastica prodotta nella storia umana meno del 10 % è stato correttamente riciclato. Il resto è finito bruciato negli inceneritori, in discariche già stracolme o disperso nell'ambiente. Oggi in Italia, un paese virtuoso per quel che riguarda la raccolta differenziata, solo la metà degli imballaggi in plastica separati correttamente tra le mura domestiche viene trasformato in nuovi prodotti. Pertanto più che cercare di gestire meglio quantità crescenti di spazzatura, bisogna cambiare prospettiva e trovare il modo di produrne meno.» 
 
Il sindaco pugliese Antonio Fentini, con un gesto coraggioso, nel 2018 firmò la prima ordinanza “plastic free” in Italia che vietava l’uso di stoviglie in plastica monouso alle Isole Tremiti, invitando i suoi colleghi a fare altrettanto. Un’azione partita dal basso che ha dato il “LA” a nuove politiche di prevenzione e contrasto all’inquinamento dei mari partite nel 2019. 
«Ricordo bene quegli anni: il problema dell'inquinamento da plastica nei mari entrò prepotentemente nel dibattito pubblico. Un'enorme spinta dal basso forzò la politica ad intervenire e a varare provvedimenti importanti, come la direttiva europea sulle plastiche monouso (detta anche SUP) che ancora oggi detiene il record dell'iter di approvazione più breve nella storia dell'Unione Europea. L'Europa, con una legge importante ma non del tutto risolutiva, ha vietato alcuni oggetti in plastica monouso (piatti, stoviglie, aste per palloncini, cannucce etc) in favore di alternative a minor impatto ambientale rappresentate, il più delle volte, da prodotti durevoli, lavabili e riutilizzabili. Ma la legge europea, già copiata in tante altre nazioni, non si limita ai soli divieti: prevede obiettivi sfidanti di raccolta differenziata per le bottiglie, l'uso crescente di materiale riciclato per fabbricarle e meccanismi di responsabilità estesa del produttore per alcuni oggetti difficilmente riciclabili come palloncini, reti da pesca e filtri per prodotti a base di tabacco. Questo cambio di paradigma è fondamentale perché le aziende così facendo dovranno farsi carico degli oneri per la raccolta e lo smaltimento di tali prodotti una volta dispersi in natura, diventando di fatto responsabili del loro intero ciclo di vita.»

La plastica biodegradabile e compostabile è una buona alternativa?
«Quando parliamo di plastica, spesso cerchiamo di sostituirla con alternative percepite come più sostenibili come carta, vetro o plastiche compostabili. Queste ultime, ad esempio, derivano da colture agricole (mais, canna da zucchero etc) che potrebbero essere utilizzate a scopi alimentari e inoltre, se disperse in mare, possono generare impatti paragonabili alle plastiche tradizionali. Partendo da ciò l'Europa, nella direttiva SUP, le ha vietate al pari delle plastiche convenzionali. Più in generale un materiale privo di impatti ambientali non esiste, pertanto più che cercare facili scorciatoie, bisogna intervenire sui modelli produttivi ed eliminare il monouso di qualsiasi natura e ovunque possibile in favore di alternative durevoli e riutilizzabili.»

Anche l'automobile disperde microplastiche

Anche le automobili contribuiscono ad aumentare l’inquinamento da plastica. In che modo?
«La nostra vita è circondata dalla plastica e non sorprende che anche con l'uso delle automobili contribuiamo, in modo inconsapevole, all'inquinamento da microplastiche. Questo perché gli pneumatici hanno delle componenti in plastica e, ad ogni curva o accelerata, la loro abrasione e il loro consumo rilascia decine e decine di detriti nell’aria e sull’asfalto, che con l’azione dei venti e delle piogge finiscono nei fiumi e infine nei mari. Ognuno di noi, dunque, solo attraverso l’uso della propria automobile, ne può rilasciare nell’ambiente più di 800 grammi all’anno.» 
 
I piccolissimi pezzi di plastica che galleggiano in superficie nel Mar Tirreno sono solo la punta di un iceberg. Secondo un gruppo di ricercatori inglesi, francesi e tedeschi, infatti, questo mare ha il record mondiale di contaminazione da microplastiche che finiscono per il 99% sul fondale. Quali rischi corriamo mangiando pesci e mitili pescati in queste acque?
«Oggi, non solo attraverso il consumo di animali marini, possiamo ingerire decine di microplastiche quotidianamente. Le minuscole particelle sono state trovare nel sale da cucina, in decine di alimenti ma anche nell'acqua che beviamo e persino nell'aria che respiriamo. Una contaminazione a cui purtroppo non possiamo sfuggire. Il loro effetto sulla nostra salute però non è del tutto noto, tuttavia è serio il rischio che con la plastica ingerita possiamo essere esposti a decine di sostanze chimiche pericolose.»
Plastica sulle spiagge di Brindisi
Foto di Lorenzo Moscia/Greenpeace

Trovata plastica nella placenta umana

Una ricerca condotta dall’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, in collaborazione con il Politecnico delle Marche, ha rilevato la presenza di plastica anche nella placenta umana. Che effetti può avere sul feto?
«La plastica è un materiale sintetico inventato dall'uomo e non dovrebbe essere nel nostro corpo. Questa ricerca dimostra che siamo esposti a questo inquinante fin dai primi istanti della nostra vita. Gli effetti ipotizzati dai ricercatori sono molteplici, tra cui interferenze sulla comunicazione tra le cellule del feto e quelle materne e sulle risposte immunitarie. I frammenti plastici potrebbero inoltre causare danni ai tessuti o infiammazioni prolungate degli organi interni, esponendo al rischio di insorgenza di masse tumorali.»

Le alternative al monouso 

Circa il 40% della plastica prodotta a livello globale viene utilizzata per contenitori, flaconi, imballaggi. Come consumatori possiamo decidere di acquistare meno plastica, ma spesso è difficile trovare tra gli scaffali dei supermercati prodotti senza imballaggi usa e getta. 
«Questo è il cuore del problema e molto spesso le aziende non ci danno alternative al packaging in plastica. Basta entrare in un supermercato per rendersene conto. Eppure nonostante molte realtà continuino ad abusare di questo materiale per confezionare i propri prodotti, ci sono decine di aziende che hanno scelto un'altra strada e sull'eliminazione del monouso in plastica hanno incentrato il loro modello di business. Aziende della cosmetica, intere catene di supermercati, numerosi negozi zero waste che vendono prodotti sfusi o in contenitori ricaricabili portati a casa dalle persone sono già realtà nel nostro paese. Da questi esempi virtuosi bisogna partire per provare a disegnare un futuro in cui l'abuso di plastica, e i problemi ambientali che ne derivano, sia solo un triste ricordo.»
 
Ci sono buone pratiche che possiamo adottare per contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica?
«Come singoli possiamo fare tanto, partendo dal rifiutare la plastica monouso ogni qual volta è possibile. Scegliere prodotti sfusi, a filiera corta, oppure venduti con contenitori riutilizzabili sono pratiche che ognuno di noi può fare proprie. Molto spesso tendiamo a sottovalutare il potere del singolo che, come consumatore, può fare tanto e premiare quelle aziende che decidono di produrre in modo più sostenibile limitando gli impatti ambientali.»
 
Che ruolo ha la citizen science nell’affrontare la crisi ambientale dovuta all’inquinamento da plastica?
«Questo aspetto è fondamentale. Basta pensare che la direttiva europea è partita proprio dall'analisi dei rifiuti che più di frequente vengono trovati sui litorali del nostro continente per introdurre nuove norme e divieti. La citizen science aumenta la consapevolezza e produce dati che possono essere impiegati per chiedere al mondo della politica e delle imprese le soluzioni di cui abbiamo urgentemente bisogno.»