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8 Aprile 2021
Ultima modifica: 8 Aprile 2021 ore 15:48

Niente figli, tanti figli

Segnati dal marchio della sterilità, Giada e Matteo non si arrendono e diventano testimoni di tenerezza e cura della fragilità, fino ai confini del mondo.
Niente figli, tanti figli
«In pochi anni i nostri sogni sono andati in frantumi: non potevamo avere figli». Poi la svolta: c'è un bimbo con la sindrome di Down abbandonato all'ospedale a Roma...
Tenendosi per mano due giovani sposi si inerpicano per un sentiero, avvolti dalla foschia, e arrivano sul monte delle stimmate a La Verna. Hanno portato lì il loro pesante fardello di dolore, gridando la loro sofferenza al vento e a Dio. Non possono avere figli.
«Essere sterili è una maledizione di Dio, è una spina conficcata nel corpo, è una piaga che mai guarisce. Non possiamo generare vita. Non possiamo lasciare un’impronta genetica nel mondo. Vediamo gli sguardi delle altre coppie su di noi: commiserazione, imbarazzo, sollievo. Non si può parlare ad alta voce della sterilità. La sterilità è un pugno nello stomaco, è una sberla in pieno viso, è dolore. Dolore che non riesci a condividere. Dolore che devi mascherare, che toglie il respiro, toglie il sorriso, toglie la gioia. Perché Dio? Perché noi?».
Giada Poluzzi e Matteo Mazzetti, entrambi bolognesi, si conoscono durante un campo estivo organizzato dalla parrocchia, per portare in vacanza ragazzi con disabilità. «Matteo si è innamorato prima di mio fratello sordo e cieco, e poi di me!» ricorda Giada.
Si fidanzano nel 2002 e si sposano nel 2004. «In pochi anni i nostri sogni sono andati in frantumi. Abbiamo anche provato la fecondazione assistita: quando una coppia si trova da sola ad affrontare una situazione così dolorosa, la ricerca della soluzione diventa prioritaria, mette a tacere il problema. L’atto d’amore si perde nella ricerca della soluzione, organizzato nel calendario della fertilità programmata. In quel periodo ci siamo persi nello smarrimento di non poter generare vita, ci siamo persi tra le corsie degli ospedali, nella mancanza di senso per la nostra coppia». Giada riceve il primo impianto e alla prima ecografia si sente il battito del bimbo a un mese di gestazione. La settimana successiva però nell’ecografia il cuoricino non batte più. Un dramma nel dramma.

La fragilità

«Era ottobre del 2008. Ci siamo presi qualche giorno da trascorrere insieme in montagna, per non pensare troppo al fatto. Eravamo sconsolati, amareggiati perché sembrava che non ci fosse una via d’uscita». Poi a dicembre, la svolta: «Poco prima di Natale mia sorella mi dice: “Giada, so che c’è un bimbo con la sindrome di Down abbandonato all’ospedale a Roma”. Lei e il marito avevano adottato qualche anno prima una bimba con la stessa sindrome. Quando l’ho detto a Matteo siamo rimasti in silenzio per qualche minuto, poi, insieme ci siamo detti: Perché no? E abbiamo chiamato subito in Tribunale. Il 13 gennaio è arrivato Filippo, aveva 3 mesi e mezzo: è stato un momento bellissimo».
Il sì a Filippo permette a Giada e Matteo di dare concretezza al loro desiderio di generare e custodire la vita: «Filippo è stato quel collante che ci ha permesso di continuare a camminare. Però non è bastato per curare la nostra ferita».
Pane Quotidiano
«Nell'anno più tragico della nostra vita insieme, ci siamo abbonati a Pane Quotidiano. Lì abbiamo trovato il coraggio di andare avanti e abbiamo scelto di far parte della Comunità Papa Giovanni XXIII».

Pane quotidiano

Dopo l’arrivo di Filippo il cammino di Giada e Matteo prosegue, ma per una serie di vicissitudini, tra cui anche il fallimento dell’azienda di famiglia dove Matteo lavora, i due sposi si trovano in un momento di grossa difficoltà: «In poco tempo abbiamo perso la nostra base sicura. Ci siamo guardati in faccia dicendo: forse è il caso di rimodulare i nostri sogni e i nostri desideri. Forse non erano quelli giusti per noi. A quel punto abbiamo incontrato la Comunità Papa Giovanni XXIII attraverso Pane Quotidiano. In quell’anno, il 2012, che è stato uno dei più tragici della nostra vita insieme, i commenti di don Oreste alle letture del giorno su Pane Quotidiano ci davano speranza e forza. Ricordo che facevamo a gara per dire: “Vedi? Sta parlando proprio a me!”. Così abbiamo deciso di andare a parlare con Paolo Ramonda». 

La missione

Giada e Matteo decidono di iniziare il cammino di verifica vocazionale nella Comunità Papa Giovanni XXIII: «È stato un primo passo che ci ha permesso di essere finalmente noi stessi: tolte tutte le nostre costruzioni mentali, abbiamo iniziato a pensare in modo diverso alla nostra vita. Già in quel primo colloquio Paolo Ramonda ci propose un periodo in missione. Era proprio quello di cui avevamo bisogno». Così Giada, Matteo e Filippo partono alla volta dello Zambia nel 2013.
«Siamo partiti in una situazione precaria, perché ci avevano appena detto che entro qualche anno Filippo avrebbe dovuto operarsi per la sua cardiopatia, ma sentivamo forte la chiamata e non potevamo rimandare». L’esperienza in Zambia dura due anni: «Un periodo intenso fatto di vita, emozioni vere e concrete, non filtrate dalla televisione o altro. Quando portavamo a scuola Filippo incrociavamo per strada tante bambine che avevano sulle spalle i loro fratellini. Abbiamo capito che solo Filippo non ci bastava: desideravamo avere altri figli».

L’urgenza di essere testimoni

Rientrati in Italia per l’intervento al cuore di Filippo, Giada e Matteo rifanno l’istruttoria per l’adozione. «Guardavamo spesso il sito Amici dei Bambini, dove ci sono le segnalazioni di bambini che hanno bisogno di essere adottati. È stato così che abbiamo saputo di Paolo, 2 anni e un’emorragia cerebrale a pochi mesi dalla nascita. Era ospite in una comunità per minori, in attesa di essere adottato. Ci siamo fatti avanti e a dicembre del 2016 Paolo è arrivato nella nostra famiglia».
Il rientro dall’Africa diventa anche un’occasione per rimettersi in gioco: «Per noi è importante essere sempre in cammino, sempre in movimento, non rimanere fermi. Sentiamo l’esigenza, l’urgenza di essere testimoni, non solo missionari, anche per le scelte che abbiamo fatto come famiglia: i nostri figli hanno bisogno di essere visti, conosciuti, toccati da tante persone». Così nel 2018 Giada e Matteo danno la disponibilità per ripartire come missionari, stavolta per l’Irlanda.
«Eravamo appena rientrati da una visita per conoscere il luogo dove saremmo andati a vivere, quando abbiamo ricevuto un appello da una coppia di nostri amici: una bimba con la sindrome di Down aspettava una famiglia e noi abbiamo detto sì. Anna, la nostra bimba più piccola, è arrivata proprio pochi mesi prima di partire per la missione».

L’Irlanda

Famiglia Giada e Matteo
Giada e Matteo Mazzetti con i figli: missionari in Irlanda
 
Oggi Giada e Matteo, insieme ai loro figli, sono missionari a Waterford: «La missione in Irlanda è un’idea di Paolo Ramonda, che riteneva importante aprire una presenza della Comunità Papa Giovanni XXIII nei Paesi del nord Europa, dove con l’aborto viene impedito a chi ha la sindrome di Down di nascere». Quando il vescovo Alphonsus Cullinan ha ricevuto la proposta e ha conosciuto Giada e Matteo con i loro figli, ha detto: «Vedendo loro, ho capito che Dio vuole ricostruire la comunità e la Chiesa irlandese attraverso le persone più fragili. Per me sono un bel segno».
Arrivati in Irlanda il 14 dicembre 2019, sono entrati in lockdown il 12 marzo 2020: «Stiamo vivendo tutta la pandemia da irlandesi. Matteo lavora in una macelleria industriale come operaio, io sto a casa con i bambini» dice Giada. «Non è un momento facile, ma il nostro vescovo ha molta creatività, e appena sarà possibile, ci saranno tante cose da fare, sarà una bella sfida».