Foto di Irene Ciambezi
A 25 anni dall'adozione del Protocollo di Palermo, la tratta di esseri umani continua ad aumentare e a cambiare. Alla conferenza internazionale tenutasi il 10 dicembre a Roma sono emersi dati allarmanti, ma anche l'urgenza di risposte che partano dalle persone, non dai sistemi. Tra gli interventi sul campo quello di Maria Mercedes Rossi della Comunità Papa Giovanni XXIII, che ha portato testimonianze descrivendo le nuove vulnerabilità: madri, giovani, comunità transgender.
La Pontificia Università Gregoriana ha ospitato il 10 dicembre una conferenza internazionale per celebrare i 25 anni del Protocollo di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria e riaffermare l’urgenza di un rinnovato impegno globale contro la tratta di esseri umani. L’iniziativa, organizzata dal Sovrano Militare Ordine di Malta insieme a Praeveni Global, al Santa Marta Group e all’Istituto di Antropologia della Gregoriana, ha riunito rappresentanti istituzionali, esperti e realtà che ogni giorno intercettano e assistono vittime.
Il Protocollo di Palermo, pilastro della cooperazione contro l’aumento della tratta
Nonostante i progressi delle normative internazionali, il quadro globale appare drammatico per la crescita continua del numero di vittime: oltre 50 milioni di persone vivono oggi in condizioni di schiavitù moderna, generando profitti criminali per 236 miliardi di dollari l’anno. Mentre sono decine di migliaia le persone che perdono la vita ogni anno a causa dello sfruttamento estremo e del lavoro forzato.
«La Convenzione di Palermo, ispirata dall’intuizione di Giovanni Falcone, resta un pilastro della cooperazione multilaterale» ha ricordato il Gran Cancelliere Riccardo Paternò di Montecupo, «ma l’instabilità globale sta spingendo la tratta verso livelli senza precedenti».
La Comunità di don Benzi e le sfide di oltre 25 anni di impegno
Tra gli interventi delle ong presenti, quello di Maria Mercedes Rossi dell’Ufficio di Ginevra della Comunità Papa Giovanni XXIII, ong impegnata dal ’96 ad oggi nell’incontro e nell’accoglienza diretta di chi esce dalla tratta, ha portato il racconto delle nuove forme di vulnerabilità osservate sul campo. «Incontrare chi fugge dalle violenze politiche in Venezuela e Colombia ci ha mostrato come i trafficanti colpiscano chi non ha casa, chi non ha futuro, chi è già perseguitato», ha spiegato. Ha ricordato anche le giovani ivoriane «fuggite da matrimoni forzati e finite in circuiti di prostituzione lungo la rotta balcanica». E ancora: le madri coinvolte nella tratta e nello sfruttamento anche online «spesso intrappolate dai propri partner o con la tecnica del loverboy».
Inoltre ha descritto anche la nuova emergenza delle persone transgender provenienti da Brasile, Colombia e Perù, «Sempre in movimento, fragili, spesso senza accesso alle cure più basilari. Le loro richieste riguardano bisogni sanitari, come la necessità di farmaci per le malattie sessualmente trasmissibili (in particolare HIV, epatite e sifilide), difficili da ottenere senza tessera sanitaria o codice ISI, o la necessità di controlli per gli aspetti chirurgici relativi alla transizione di genere e alla terapia ormonale».
Le vulnerabilità si moltiplicano, così come le forme di sfruttamento specie di persone da Pakistan, Bangladesh e giovani dal Maghreb verso l’Europa: agricoltura, logistica, ristorazione, edilizia, baby-sitting. «In Italia ci troviamo di fronte a forme sempre più gravi di sfruttamento lavorativo e schiavitù, in cui il datore di lavoro (e/o l'intermediario) ha il controllo totale sul lavoratore, anche attraverso l'uso della violenza, anche in ambiti della vita personale al di fuori del lavoro (soprattutto per quanto riguarda gli alloggi)» ha denunciato la Rappresentante principale all'ONU della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Maria Mercedes Rossi ha presentato anche buone prassi europee e italiane realizzate nell’ultimo triennio: attraverso il progetto AMELIE, la formazione rivolta agli operatori sanitari che ha coinvolto 800 professionisti in quattro paesi europei e col progetto NETWORKS, che ha supportato in sei paesi europei 55 donne, l’attivazione di percorsi di lavoro e formazione e di assistenza ai loro figli nel processo di integrazione. Particolarmente innovativo il progetto italiano ALMA, che coinvolge comunità etniche e religiose nel riconoscere e prevenire la spirale della violenza sulle donne migranti e dello sfruttamento sessuale: laboratori con i giovani, una campagna social e perfino un cartoon da diffondere nelle scuole per scoraggiare la domanda di sesso a pagamento.
La tratta si può combattere solo insieme
La Conferenza ha sottolineato anche il contributo dell’Ordine di Malta attraverso programmi come Villa Bakhita a Lagos, in Nigeria, che offre protezione, sostegno psicologico e percorsi di reintegrazione a donne e bambini sopravvissuti alla tratta. Particolare attenzione è stata dedicata al lavoro del CISOM, il Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta, e alla sua solida collaborazione con il Governo italiano nella gestione dei flussi migratori. Attraverso l’impiego continuativo di medici e infermieri in cinque aree costiere, 24 ore su 24, il CISOM fornisce assistenza salvavita a decine di migliaia di persone in mare. Il Gran Ospedaliere Josef D. Blotz ha ribadito quindi la missione dell’Ordine: «Prevenzione, protezione e rafforzamento delle capacità istituzionali devono restare i cardini del nostro impegno» ricordando ai partecipanti che «la dignità umana deve restare il centro di ogni risposta».
La giornata si è conclusa con un appello condiviso: senza un impegno globale – istituzioni, società civile, comunità religiose e settori privati – la tratta continuerà a mutare e crescere. Ma, soprattutto, senza ascoltare le storie e i bisogni di chi sopravvive, e senza la volontà politica di colpire anche la domanda, affinché – come ha ricordato Papa Francesco – “nessuno sia più trattato come merce da sfruttare, vendere o comprare”, anche le migliori politiche rischiano di diventare vuote.
«Combattere la tratta non è un gesto di carità», ha ricordato l’Ambasciatore dell’Ordine, Michel Veuthey. «È un imperativo morale e giuridico».