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4 Giugno 2020

Trieste porta d'Europa

40 profughi al giorno in transito nel mese di maggio: a piedi anche dal Pakistan. Testimonianza del Direttore Caritas.
Trieste porta d'Europa
Migranti in cerca di rifugio durante la pandemia; da dove vengono e dove vanno. Il difficile equilibrio fra diffidenza e solidarietà al confine con la Slovenia.
Un riflettore sempre acceso in queste settimane sul mar Mediteranneo, sulla rotta libica e quella algerina storicamente vie di accesso più gettonate dai trafficanti di esseri umani sulle spalle di chi è in fuga da guerre e povertà. Porta d’ingresso per l’Europa dal sud Italia. Ma a nord est c’è un’altra frontiera più lontana e difficile da raggiungere ma meno pericolosa, e meno nota alle cronache. Ma da tempo è diventata la maggior porta d’ingresso in Europa: la rotta balcanica.

Nel 2015, in pochi mesi, si sono spostati verso l’Europa 850mila uomini, donne e bambini soprattutto in fuga dal conflitto in Siria, per chiedere protezione in Germania, Austria, Belgio e nei paesi scandinavi. Sono profughi che si mettono in marcia per mesi e spesso per anni. Non hanno abbastanza soldi per il viaggio. Spesso sono senza documenti d’identità. Dalle polizie di frontiera che usano i droni per rintracciarli, sono anche picchiati, gli si tolgono le scarpe e il cellulare perché non abbiano nessuna chance nel proseguire il viaggio. Ma il viaggio di chi fugge ed è disperato ha un unico obiettivo: andare in nord Europa, al sicuro. Anche davanti alle frontiere chiuse, ai campi di massa in Bosnia insufficienti ad accoglierli con dignità, o agli squat (le fabbriche dismesse dove restano per mesi senza luce e senza acqua arrangiandosi a trovare cibo), e di fronte ai valichi di montagna, ai boschi sconosciuti, non si fermano. E cercano a tutti i costi di raggiungere l’Europa, attraversando i confini di sei o sette paesi e per ultimo quello con l’Italia. La rotta balcanica inizia convenzionalmente in Grecia e finisce a Trieste.

The game: l'ultimo miglio lungo la rotta balcanica

Don Alessandro Amodeo, Direttore della Caritas triestina non ha dubbi: «Chiunque sentirebbe un forte senso di pietà se conoscesse le storie di queste persone. Ascoltare la loro terribile esperienza in patria, il viaggio, le aspettative del futuro ti fa capire che sono davvero dei sopravvissuti nella loro fuga dalla povertà e dalla guerra». Sono per lo più uomini provenienti da Afghanistan, Pakistan, Siria, Iraq e Iran. In questi primi mesi dell’anno e soprattutto durante la pandemia, chiuse le frontiere dei paesi europei per il lockdown, c’era stato un leggero calo degli arrivi - da gennaio ad aprile 2020 in Friuli Venezia Giulia ne erano stati registrati 1173 - ma è durato poco. Il recente Rapporto Caritas impressiona: tra il 27 aprile e il 3 maggio sono arrivate 157 persone, con una media di arrivi di 40 al giorno, nel mese di maggio. Un aumento del 14,8%.
Sono sopravvissuti ai conflitti in Medio Oriente o nel sud asiatico, sopravvissuti al viaggio durissimo dalla Turchia alla Grecia. Poi dall’Albania al Montenegro fino alla Bosnia-Erzegovina. Alla fine del 2019, oltre 8mila persone, tra cui 1 su 4 minore. Chiamano “the game” l’attraversamento dell’ultimo confine tra Bosnia e Croazia verso la Slovenia. Spesso i costi dei passeur – 1500 euro per la guida a piedi, 6000 euro per il passaggio in auto fino a Trieste - sono troppo alti e i profughi decidono di addentrarsi da soli nei boschi. «A Trieste l’accoglienza dei migranti che passano il confine è un’esperienza storica e di lunga data – spiega il Direttore della Caritas. La nostra città è un caso particolare: qui il progetto Sprar per l’integrazione dei richiedenti asilo, diffuso negli anni scorsi su tutto il territorio italiano, era già nato più di 20 anni fa e c’è da sempre un grandissimo impegno della Caritas diocesana nell’assistenza immediata. C’era da aspettarselo che i campi i Bosnia, in cui erano segregate migliaia di persone, esplodessero i primi di aprile».

A Trieste le accoglienze Caritas

Centinaia di persone hanno iniziato a spostarsi ogni giorno per raggiungere il nord. Ma in Ungheria è impossibile passare il confine, tra filo spinato, forze armate, droni, telecamere e manganellate. E così tentano di attraversare quello croato e poi quello tra Slovenia e Italia, lungo il Carso, nonostante i continui respingimenti. «Così a Trieste ci siamo trovati di fronte ad un improvviso incremento. E da subito, in accordo con le prefetture e la Protezione civile, ci siamo attrezzati predisponendo nuovi alloggi per l’isolamento fiduciario obbligatorio di 14 giorni, come richiesto dalle misure di contenimento del Covid-19 per chi viene da oltreconfine». La Caritas si sta prendendo cura ad oggi di ben 242 migranti. Ha allestito due alberghi e un Ostello scout e in parte alloggi provvisori anche con tende gestite dalla Protezione civile. Nelle ultime settimane ha assistito anche nuovi gruppi provenienti dall’Algeria lungo la rotta balcanica, soluzione alternativa a quella mediterranea, ed è cresciuto anche il numero degli yemeniti. L’Unhcr aveva già lanciato un allarme riguardo a quest’ultimo paese, in guerra da ormai 6 anni, in estrema povertà e con una situazione aggravata da inondazioni e piogge torrenziali. Una crisi umanitaria che ha portato a scappare dalle loro case più di 3 milioni e mezzo di persone. Arrivati negli alloggi triestini per l’isolamento fiduciario, i diversi gruppi etnici, pur considerando la “sosta italiana” un altro ostacolo al viaggio verso il nord, sanno di essere al sicuro e che per la pandemia è necessario rispettare le regole. «Solo una piccolissima parte tenta la fuga – conferma don Amodeo. La Caritas ha preparato in brevissimo tempo un solido numero di mediatori e operatori che aiutano a capire le misure anti-Covid e a gestire le richieste di protezione internazionale».

Fra diffidenza e solidarietà

Ma la popolazione triestina come reagisce a questi arrivi improvvisi? C’è ostilità verso chi è straniero e potrebbe far cambiare la curva dei contagi? «Io sono da 7 anni – racconta il Direttore della Caritas - abbiamo affrontato l’intolleranza, l’indifferenza, la gestione normale dei migranti. Abbiamo costruito 5 anni fa con una quindicina di famiglie un bel progetto intitolato “A Trieste l’accoglienza è di casa”. E non erano famiglie della parrocchia! In questo anno abbiamo anche affrontato situazioni gravissime di manifestazioni, di paure indotte, di una politica becera che vuole infilare ovunque l’avversione verso l’altro… Ma qui la convivenza è di casa. Certo come a Gorizia, a Udine e in diverse città di confine del Veneto avremmo dovuto avere un aiuto particolare dal governo: le nostre prefetture hanno certe specificità che non hanno in altre città. Ma noi andiamo avanti comunque. Se penso che in questi giorni stanno arrivando anche alcune mamme… Se penso a quella donna arrivata a inizio anno scioccata… Col marito ce l’avevano quasi fatta ma lungo l’altopiano carsico è scivolato, ed è morto… Come possiamo non occuparci di questi esseri umani in cerca di rifugio?».