«Ci siamo focalizzati nei villaggi più remoti o nelle zone meno centrali perché sono quelle meno servite. Abbiamo scelto questa provincia, anche se la zona è molto vasta, perché è vicina alla sede della diocesi dell’Anatolia dove si trova la sede vescovile e la comunità cristiana, e riusciamo anche fisicamente ad essere più presenti. Distribuiamo cibo perché c’è gente che veramente soffre la fame, portiamo l'acqua. Tanti sono disabili, tante persone chiedono beni essenziali, dai pannoloni alla sedia a rotelle. Adesso che è inverno portiamo tante stufe in questi villaggi sparsi a due, quattro ore dalla diocesi.
«La disperazione è molto più alta, la stanchezza molto più pesante. Non c’è più l’adrenalina dell’inizio. C’è un senso di solitudine, di abbandono in chi è rimasto, perché non ha proprio più niente da perdere.»
«È AFAD, la protezione civile turca, che si occupa delle emergenze e coordina tutto. Noi lavoriamo a stretto contatto con loro e con la Mezza Luna rossa, il secondo ente governativo che si occupa dell’aspetto umanitario. È tanto lo sforzo di tutti. Ma ci sono anche tanti dimenticati, quelli che sono fuori dal sistema della società.»
«Migranti, disabili, ma anche molti anziani, minoranze, agricoltori, soprattutto pastori che non vogliono spostarsi dal proprio villaggio, per andare a vivere in container o tendopoli in una metropoli al campo centrale governativo dove ci sono i servizi statali più ampi, la scuola. Il motivo di tutto ciò è il loro senso di resilienza, perché non vogliono perdere la loro terra, abbandonare la propria comunità. Questa è una terra molto antica.»
«Vado spesso nel piccolo villaggio di Ovakent nel sud est della Turchia a pochi chilometri dalla Siria. Qui vive dagli anni ’80, assieme alla comunità turca, una piccola comunità afghana fuggita dalla guerra. La Turchia rilasciò loro il permesso di soggiorno a condizione che ripopolassero quell’area abbandonata. I loro figli, oramai, sono praticamente turchi. Gli uomini sono quasi tutti i pastori e le donne sono occupate nel capo del tessile. La situazione è complessa: la maggioranza delle case resta inagibile e le famiglie che non hanno trovato posto nei campi con i container, si sono accampate in maniera provvisoria vicino alle loro vecchie case per evitare casi di sciacallaggio.»
«Le donne. Hanno tante aspirazioni. Non si sono arrese alla situazione drammatica in cui versano, ma fanno molti piani per il futuro. Alcune addirittura pianificano di allargare la famiglia, chi chiede macchine da cucire per aprire una cooperativa, alcune hanno aperto un piccolo forno di pane. Insomma, chiedono delle cose creative, hanno già delle soluzioni in mente.»
«Mi colpisce molto come non siano persone che chiedono il pesce, ma la canna per pescare. Incontrarle mi fa molto bene. Non abbiamo edifici nuovi, ma quello che è veramente cambiato un anno dopo è che alcune di loro hanno sviluppato delle idee, dei modi per andare avanti nonostante tutto. Hanno abbellito i loro container con le fioriere, li hanno dipinti. Hanno pure una biblioteca. Per molte di queste donne afghane non è la prima volta che affrontano una catastrofe ed è come se avessero sviluppato dei meccanismi di ripresa.»
«Quella di Fatima. Mentre le chiedevo come andava il forno del pane e come stavano le donne del villaggio, lei mi ha detto sorridendo che era incinta. Dentro di me ho pensato che il posto dove viveva era il meno adatto per essere incinta e che era pericoloso per i bambini, in quanto spesso c’erano dei corto circuito. Mi sentivo preoccupata per lei. Leggendo sul volto la mia perplessità mi ha detto. “Allora non credi veramente nella vita. Ti do questa notizia molto bella per me e tu rimani sconcertata e ti fai fermare dalle condizioni in cui viviamo?”. Mi ha fatto riflettere la sua forza e la solidarietà di tutte le altre donne proiettate nell'aiutarla e nel pensare a come affrontare tra nove mesi l’arrivo del bambino.»
«Operiamo in diversi settori. Diamo cibo in tutte le forme, dalla card per la spesa al pacco alimentare. Tutto ciò che riguarda l'igiene personale e della casa perché qui ci sono spesso alluvioni e le case sono da pulire. Doniamo i container alle famiglie. Stufe e carbone per affrontare l'inverno. Teli ombreggianti per affrontare l'estate. Insomma tutto quello che serve per vivere in queste situazioni in maniera dignitosa.»
«Quando si aiutano i poveri senza distinzioni si dà un messaggio molto chiaro, molto forte. Ciò che fa Caritas, che è la mano della Conferenza episcopale turca verso i poveri, parla più di tante dichiarazioni. Per questo tra la gente, tra i poveri siamo ben voluti.»
«Bisogna saper non cedere al terrore perché poi il terrore divide e ci divide anche dal basso. Ma in generale anche quest'anno siamo stati invitati a diversi incontri istituzionali, siamo stati ringraziati per quello che facciamo anche a livello governativo. Noi siamo tranquilli perché sappiamo di essere dalla parte del giusto.
Certo in questo momento non è facile essere una minoranza. Ma forse rende ancora più vero ciò che diciamo. Non è che si può essere credenti a metà».
«Sento di essere al mio posto. Poi vedremo la vita dove mi porterà».