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6 Febbraio 2024
Ultima modifica: 7 Febbraio 2024 ore 10:03

Un anno dopo il terremoto in Turchia. Intervista a Giulia Longo, program manager Caritas

La situazione è ancora precaria, ma nel villaggio di Ovakent, a sud est della Turchia, emerge una storia di resilienza in cui sono protagoniste le donne.
Un anno dopo il terremoto in Turchia. Intervista a Giulia Longo, program manager Caritas
Foto di EPA/ERDEM SAHIN
Giulia Longo, coordinatrice dell'emergenza terremoto, ogni mese va nella provincia di Hatay ad incontrare le persone aiutate da Caritas Turchia. In questo ultimo periodo a complicare la situazione anche l'attentato terroristico ad una chiesa italiana, in cui è rimasto uccisa una persona.
È passato un anno dal terremoto di magnitudo 7,9 che, il 6 febbraio 2023, ha devastato il sud est della Turchia e il nord della Siria provocando più di 50mila vittime. 9,1 milioni le persone colpite dagli effetti del sisma, 4 milioni gli sfollati, 214mila gli edifici distrutti o inagibili.
Un anno, dopo la situazione in Turchia è ancora grave. «Tra l’altro qualche giorno fa c'è stata una scossa di magnitudo 5. Continuiamo veramente a tremare».

Giulia Longo culla un bimbo nato da poco al campo di sfollati del terremoto nel villaggio di Belen.


A parlarne con un tono d’urgenza è Giulia Longo, coordinatrice italiana dell’emergenza terremoto per Caritas Turchia di cui è program manager in pianta stabile a Istanbul, da quando ha dovuto abbandonare con gli altri operatori gli uffici Caritas a Gaziantep dove lavorava, perché distrutti dal terremoto.  
«Non sembra sia passato un anno, perché è ancora tutto come quel giorno, quando tutto è crollato in un attimo, siamo ancora in stato d’emergenza. Niente è stato ricostruito, la gente vive ancora nei container e nelle tende. È il momento di pensare al futuro e invece devo dire che c'è ancora tanta gente senza cibo.»  


Giulia Longo tutti i mesi si reca in visita nella provincia di Hatay, ad Iskenderun, dove ha sede la Caritas Anatolia per monitorare la situazione del territorio. Hatay è una delle zone più colpite dal terremoto con il 36% dei danni. Il territorio è molto vasto, 76 comuni e 360 villaggi con una popolazione di 1,69 milioni.
Solo la Caritas diocesana qui si trova ad operare in 32 città diverse, la più vicina è a soli 32 km, ma la più distante è a più di 1.300 km.
Giulia incontra molte persone facendosi carico della loro assistenza nei numerosi campi profughi ma anche in quelli di fortuna che si sono formati spontaneamente nella città di Iskenderun. Sono migliaia i kit alimentari, igienici, vestiti e articoli per l’inverno distribuiti come coperte, stufe.. «Ora stiamo sviluppando anche progetti di supporto medico e di assistenza ai disabili.»
 

 

Dove operate esattamente?

«Ci siamo focalizzati nei villaggi più remoti o nelle zone meno centrali perché sono quelle meno servite. Abbiamo scelto questa provincia, anche se la zona è molto vasta, perché è vicina alla sede della diocesi dell’Anatolia dove si trova la sede vescovile e la comunità cristiana, e riusciamo anche fisicamente ad essere più presenti. Distribuiamo cibo perché c’è gente che veramente soffre la fame, portiamo l'acqua. Tanti sono disabili, tante persone chiedono beni essenziali, dai pannoloni alla sedia a rotelle. Adesso che è inverno portiamo tante stufe in questi villaggi sparsi a due, quattro ore dalla diocesi.

Casa colpita dal terremoto nel villaggio di Ovakent
Campo formale di Ovakent

Cosa vedi attorno a te un anno dopo?

«La disperazione è molto più alta, la stanchezza molto più pesante. Non c’è più l’adrenalina dell’inizio. C’è un senso di solitudine, di abbandono in chi è rimasto, perché non ha proprio più niente da perdere.»

Che supporto sta offrendo il governo alla popolazione?

«È AFAD, la protezione civile turca, che si occupa delle emergenze e coordina tutto. Noi lavoriamo a stretto contatto con loro e con la Mezza Luna rossa, il secondo ente governativo che si occupa dell’aspetto umanitario. È tanto lo sforzo di tutti. Ma ci sono anche tanti dimenticati, quelli che sono fuori dal sistema della società.»

Chi sono?

«Migranti, disabili, ma anche molti anziani, minoranze, agricoltori, soprattutto pastori che non vogliono spostarsi dal proprio villaggio, per andare a vivere in container o tendopoli in una metropoli al campo centrale governativo dove ci sono i servizi statali più ampi, la scuola. Il motivo di tutto ciò è il loro senso di resilienza, perché non vogliono perdere la loro terra, abbandonare la propria comunità. Questa è una terra molto antica.»

Ultimamente dove sei stata?

«Vado spesso nel piccolo villaggio di Ovakent nel sud est della Turchia a pochi chilometri dalla Siria. Qui vive dagli anni ’80, assieme alla comunità turca, una piccola comunità afghana fuggita dalla guerra. La Turchia rilasciò loro il permesso di soggiorno a condizione che ripopolassero quell’area abbandonata. I loro figli, oramai, sono praticamente turchi. Gli uomini sono quasi tutti i pastori e le donne sono occupate nel capo del tessile.  La situazione è complessa: la maggioranza delle case resta inagibile e le famiglie che non hanno trovato posto nei campi con i container, si sono accampate in maniera provvisoria vicino alle loro vecchie case per evitare casi di sciacallaggio.»

Chi hai incontrato?

«Le donne. Hanno tante aspirazioni. Non si sono arrese alla situazione drammatica in cui versano, ma fanno molti piani per il futuro. Alcune addirittura pianificano di allargare la famiglia, chi chiede macchine da cucire per aprire una cooperativa, alcune hanno aperto un piccolo forno di pane. Insomma, chiedono delle cose creative, hanno già delle soluzioni in mente.»

Biblioteca in tenda nel villaggio di Samadag

Donne che non si abbattono anche in una situazione precaria come la loro

«Mi colpisce molto come non siano persone che chiedono il pesce, ma la canna per pescare. Incontrarle mi fa molto bene. Non abbiamo edifici nuovi, ma quello che è veramente cambiato un anno dopo è che alcune di loro hanno sviluppato delle idee, dei modi per andare avanti nonostante tutto. Hanno abbellito i loro container con le fioriere, li hanno dipinti. Hanno pure una biblioteca. Per molte di queste donne afghane non è la prima volta che affrontano una catastrofe ed è come se avessero sviluppato dei meccanismi di ripresa.»

C’è una storia che ti porti nel cuore?

«Quella di Fatima. Mentre le chiedevo come andava il forno del pane e come stavano le donne del villaggio, lei mi ha detto sorridendo che era incinta. Dentro di me ho pensato che il posto dove viveva era il meno adatto per essere incinta e che era  pericoloso per i bambini, in quanto spesso c’erano  dei corto circuito. Mi sentivo preoccupata per lei. Leggendo sul volto la mia perplessità mi ha detto. “Allora non credi veramente nella vita. Ti do questa notizia molto bella per me e tu rimani sconcertata e ti fai fermare dalle condizioni in cui viviamo?”. Mi ha fatto riflettere la sua forza e la solidarietà di tutte le altre donne proiettate nell'aiutarla e nel pensare a come affrontare tra nove mesi l’arrivo del bambino.»  

Che tipo di interventi state facendo?

«Operiamo in diversi settori. Diamo cibo in tutte le forme, dalla card per la spesa al pacco alimentare. Tutto ciò che riguarda l'igiene personale e della casa perché qui ci sono spesso alluvioni e le case sono da pulire. Doniamo i container alle famiglie. Stufe e carbone per affrontare l'inverno.  Teli ombreggianti per affrontare l'estate. Insomma tutto quello che serve per vivere in queste situazioni in maniera dignitosa.»

Come si vive in Turchia da cristiani?

«Quando si aiutano i poveri senza distinzioni si dà un messaggio molto chiaro, molto forte. Ciò che fa Caritas, che è la mano della Conferenza episcopale turca verso i poveri, parla più di tante dichiarazioni. Per questo tra la gente, tra i poveri siamo ben voluti.»

L’attentato terroristico del 28 gennaio scorso ad una chiesa italiana a Istanbul, in cui è stato uccisa una persona, sembra dire altro.

«Bisogna saper non cedere al terrore perché poi il terrore divide e ci divide anche dal basso. Ma in generale anche quest'anno siamo stati invitati a diversi incontri istituzionali, siamo stati ringraziati per quello che facciamo anche a livello governativo. Noi siamo tranquilli perché sappiamo di essere dalla parte del giusto.
Certo in questo momento non è facile essere una minoranza. Ma forse rende ancora più vero ciò che diciamo. Non è che si può essere credenti a metà».

Quali sono i tuoi progetti. Rimarrai a Istanbul?

«Sento di essere al mio posto. Poi vedremo la vita dove mi porterà».